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Il tondo volto di Penthe si atteggiò a una smorfia di disprezzo, diversa dall’espressione fredda di Kossil, eppure in un certo senso così simile che Arha proruppe in una risata quasi atterrita.

—  «Cosa succede? Cosa succede?», ha detto Kossil. E poi… e poi la capra marrone l’ha presa a cornate… - Penthe si sciolse in una risata, con gli occhi traboccanti di lacrime. — E M-Munith ha colpito la… la capra con il v-v-vaso…

Le due ragazze si dondolarono avanti e indietro, squassate dall’ilarità, stringendosi le ginocchia, ridacchiando.

—  E allora Kossil si è girata e ha detto «Cosa succede? Cosa succede?» alla… alla… alla capra… — La conclusione del racconto si perse tra le risate. Infine Penthe si asciugò gli occhi e il naso e addentò distrattamente un’altra mela.

Ridere tanto forte aveva scosso un po’ Arha. Si calmò, e dopo qualche istante chiese: — Come mai tu sei venuta qui?

—  Oh, ero la sesta figlia femmina, e mio padre e mia madre non potevano tirarci su tutte e trovarci marito. Così, quando ho compiuto i sette anni, mi hanno condotta al tempio del re-dio, e mi hanno dedicata. È stato a Ossawa. Ma là c’erano già troppe novizie, immagino, perché poco dopo mi hanno mandata qui. O forse pensavano che sarei diventata una buona sacerdotessa, o qualcosa del genere. Ma in questo si sbagliavano! — Penthe addentò la mela con un’espressione di gaio rammarico.

—  Preferiresti non essere sacerdotessa?

—  Se lo preferirei? Ma certo! Preferirei sposare un porcaio e vivere in un fosso. Preferirei qualunque cosa piuttosto di vivere qui tutti i miei giorni in mezzo a un branco di donne, in un vecchio deserto dove non viene mai nessuno! Ma è inutile pensarci, perché ormai sono stata consacrata ed è fatta. Ma spero che nella mia prossima vita sarò una danzatrice di Awabath! Perché me lo sarò meritato.

Arha la guardò, uno sguardo fermo e aggrondato. Non comprendeva. Sentiva che prima di quel giorno non aveva mai visto la vera Penthe, non l’aveva mai guardata in modo da scoprire qual era in realtà: bella, rotonda, piena di vita e succosa, come una delle sue mele dorate.

—  Il tempio non significa proprio nulla, per te? — chiese, piuttosto aspramente.

Penthe, sempre sottomessa e facile a lasciarsi intimidire, questa volta non si allarmò. — Oh, so che i tuoi Padroni sono molto importanti per te — disse, con un’indifferenza che scandalizzò Arha. — Ma questo è comprensibile, perché tu sei la loro unica ancella. Tu non sei stata semplicemente consacrata: sei nata apposta. Ma guarda me. Dovrei provare tanta reverenza per il re-dio? Dopotutto è soltanto un uomo, anche se vive ad Awabath in un palazzo dai tetti d’oro e con una circonferenza di dieci miglia. Ha quasi cinquant’anni ed è calvo. Basta guardare le statue. E scommetto che deve tagliarsi le unghie dei piedi, come tutti gli altri uomini. So benissimo che è anche un dio. Ma io penso che sarà molto più dio quando sarà morto.

Arha era d’accordo con Penthe, perché segretamente aveva finito col considerare i sedicenti imperatori divini di Kargad alla stregua di dèi falsi e arrivisti che cercavano di usurpare la venerazione dovuta alle vere ed eterne Potenze. Ma nelle parole di Penthe c’era qualcosa che non approvava, qualcosa di completamente nuovo per lei, qualcosa di spaventoso. Non si era mai accorta che la gente era molto diversa e vedeva la vita in un modo molto diverso. Aveva la sensazione di aver alzato all’improvviso la testa e di aver visto librarsi oltre la finestra un nuovo pianeta immenso e popoloso, un mondo interamente sconosciuto in cui gli dèi non contavano nulla. Era spaventata dalla concretezza dell’empietà di Penthe. Impaurita, scattò.

—  È vero. I miei Padroni sono morti da molto, molto tempo; e non sono uomini… Sai, Penthe, potrei chiamarti al servizio delle tombe. — Parlò gentilmente, come se offrisse all’amica un’occasione migliore.

Il colore roseo defluì dalle guance di Penthe.

—  Sì — disse lei. — Potresti farlo. Ma io non sono… non sono il tipo adatto.

—  Perché?

—  Ho paura del buio — rispose Penthe, a voce bassa.

Arha fece udire un breve sbuffo di disprezzo, ma era compiaciuta. Aveva dimostrato ciò che voleva. Penthe poteva non credere agli dèi, ma temeva le innominabili potenze delle tenebre… come tutte le anime mortali.

—  Non lo farei a meno che tu lo volessi, lo sai — disse Arha. Tra loro scese un lungo silenzio.

—  Stai diventando sempre più simile a Thar — riprese Penthe, con quel suo fare tenero e sognante. — Grazie al cielo, non stai diventando come Kossil! Ma tu sei così forte. Vorrei essere forte anch’io. A me piace solo mangiare…

—  E allora continua — disse Arha, con superiorità divertita, e poco alla volta Penthe consumò la terza mela fino al torsolo. Un paio di giorni dopo, le esigenze dell’eterno rituale del Luogo strapparono Arha alla sua solitudine. Una capra aveva partorito due capretti gemelli fuori stagione, e secondo la consuetudine dovevano essere sacrificati agli dèi gemelli: era un rito importante, e la Prima Sacerdotessa doveva partecipare. Inoltre era il novilunio, e si dovevano compiere le cerimonie delle tenebre davanti al trono vuoto. Arha aspirò gli inebrianti fumi delle erbe che bruciavano in larghi vassoi di bronzo davanti al trono, e danzò, solitaria, avvolta nelle vesti nere. Danzò per gli spiriti invisibili dei morti e dei non nati, e mentre danzava gli spiriti affollarono l’aria intorno a lei seguendo le giravolte dei suoi piedi e i gesti lenti e sicuri delle sue braccia. Cantò i canti di cui nessuno comprendeva le parole e che lei aveva appreso sillaba per sillaba da Thar, molto tempo prima. Un coro di sacerdotesse nascoste nella penombra dietro la duplice grande fila di colonne faceva eco alle strane parole, ripetendole dopo di lei, e l’aria dell’immensa navata in rovina vibrava di voci come se anche la folla degli spiriti ripetesse incessantemente quei canti.

Il re-dio, che regnava dal suo palazzo ad Awabath, non inviò altri prigionieri al Luogo, e a poco a poco Arha smise di sognare i tre che erano morti ormai da molto tempo e sepolti in tombe poco profonde nella grande caverna sotto le Pietre.

Arha chiamò a raccolta tutto il coraggio per tornare in quella caverna. Doveva andarci: la Sacerdotessa delle Tombe doveva entrare nel suo dominio senza terrore, e conoscerne le vie.

La prima volta che varcò la botola fu difficile, ma meno difficile di quanto avesse temuto. Si era preparata, aveva deciso che sarebbe andata sola e non avrebbe perso la testa, e quando vi giunse rimase quasi sgomenta scoprendo che non c’era nulla da temere. Potevano esserci le tombe, ma lei non le vedeva: non vedeva nulla. Era buio e c’era silenzio: e questo era tutto.

Continuò ad andarci, passando sempre per la botola nella stanza dietro il trono, fino a quando imparò a conoscere bene l’intero circuito della caverna, con le sue strane pareti scolpite: bene per quanto poteva conoscerlo senza vederlo. Non si scostava mai dalle pareti, perché attraversando la grande cavità avrebbe potuto perdere il senso dell’orientamento nell’oscurità e tornando a tentoni a una parete non avrebbe saputo dove si trovava. Come aveva imparato la prima volta, là nei luoghi tenebrosi la cosa più importante era di sapere quali svolte e quali aperture aveva superato e quali l’attendevano ancora. Doveva procedere contando, perché erano tutte uguali sotto le sue dita brancolanti. La sua memoria era stata ben addestrata, e lei non aveva difficoltà in quello strano compito di trovare la strada al tatto e contando, invece di affidarsi alla vista e al buonsenso. Ben presto conobbe a memoria tutti i corridoi che partivano dalla cripta, il labirinto minore situato sotto il palazzo del trono e la cima della collina. Ma c’era un corridoio dove non si era mai addentrata: il secondo a sinistra dall’entrata nella roccia rossa, quello da cui, se vi fosse penetrata scambiandolo per un altro che conosceva, forse non sarebbe mai uscita. Il suo desiderio di entrarvi, di scoprire il labirinto, cresceva continuamente: ma lei lo dominava, in attesa di aver imparato tutto ciò che poteva.