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Serret lo tirò per la mano; ma lui esitava ancora. — Che incantesimo hai gettato, su di loro?

—  Ho fatto scorrere piombo fuso nel midollo delle loro ossa: ne moriranno. Presto, ti dico: lui scatenerà i servitori della pietra, e io non posso trovare la porta: è circondata da un grande sortilegio. Presto!

Ged non capiva cosa intendesse dire, perché per lui la porta incantata era in piena vista, come l’arcata di pietra del cortile attraverso la quale la scorgeva. Condusse Serret sulla neve intatta del cortile esterno, e poi, pronunciando una parola d’apertura, la condusse oltre la porta del muro d’incantesimi.

Serret mutò mentre varcavano la soglia e uscivano dall’argenteo crepuscolo della corte del Terrenon. Non era meno bella nella luce squallida delle brughiere, ma la sua bellezza aveva un aspetto feroce, da strega; e infine Ged la riconobbe: era la figlia del signore di Re Albi e di un’incantatrice di Osskil, che tanto tempo addietro si era burlata di lui sui prati verdi sopra la casa di Ogion e l’aveva indotto a leggere l’incantesimo che aveva scatenato l’ombra. Ma Ged pensò ben poco a questo, perché adesso si guardava intorno con tutti i sensi vigili, cercando quel nemico, l’ombra che l’attendeva chissà dove all’esterno delle mura incantate. Poteva essere ancora gebbeth, abbigliato della morte di Skiorh, oppure poteva nascondersi nell’oscurità, in attesa di afferrarlo e di fondere la propria massa informe con la sua carne viva. La sentiva vicina, eppure non la vedeva. Ma mentre guardava, vide una cosetta scura semisepolta nella neve, a pochi passi dalla porta. Si chinò, e la raccolse delicatamente con entrambe le mani. Era l’otak, con la splendida pelliccia raggrumata di sangue e il corpicino leggero e irrigidito e freddo nelle sue mani.

—  Trasformati! Trasformati, stanno arrivando! — gridò Serret, afferrandogli il braccio e indicando la torre che stava dietro di loro come un’alta zanna bianca nel crepuscolo. Dalle feritoie alla base stavano uscendo esseri che sbattevano le lunghe ali e s’involavano lentamente volteggiando sopra le mura verso Ged e Serret, che stavano sul pendio della collina. Il mormorio frusciante che avevano udito all’interno della fortezza era divenuto più forte: era un tremore e un lamento nella terra, sotto i loro piedi.

La collera gonfiò il cuore di Ged, una collera rovente di odio per tutte le cose crudeli e tremende che lo ingannavano, l’intrappolavano, lo inseguivano. — Trasformati! — gli gridò Serret, e con un incantesimo ansimante si contrasse assumendo l’aspetto di un gabbiano grigio e volò via. Ma Ged si chinò e colse un filo d’erba selvatica che spuntava secco e fragile dalla neve dove prima giaceva morto l’otak. Levò il filo d’erba, e mentre gli parlava nella Vera Favella quello si allungò, s’ingrossò, e divenne un grande bastone, un bastone da mago nella sua mano. Nessun fuoco malefico lingueggiò rosso lungo il bastone quando le nere creature svolazzanti uscite dalla corte del Terrenon piombarono su di lui e lui colpì le loro ali: sfolgorava solo del bianco fuoco magico che non brucia ma disperde la tenebra.

Gli esseri tornarono all’attacco: bestie deformi, appartenenti alle epoche antecedenti gli uccelli e i draghi e gli uomini, dimenticate da molto tempo nella luce del giorno ma ricordate dall’antico, maligno, implacabile potere della pietra. Assalirono Ged, avventandosi su di lui. Ged sentiva intorno a sé il brivido degli artigli falcati, e il loro fetore di morte lo nauseava. Rabbrividendo, parò e colpì, scacciandoli col bastone fiammeggiante creato dalla sua ira e da un filo d’erba selvatica. E all’improvviso si sollevarono tutti come corvi spaventati che abbandonano una carogna e volarono via silenziosamente nella direzione in cui era sparita Serret in forma di gabbiano. Le immense ali sembravano lente, eppure volavano veloci: ogni colpo d’ala li spingeva poderosamente attraverso l’aria. Nessun gabbiano avrebbe potuto vincere quella pesante velocità.

Fulmineo, come aveva fatto una volta a Roke, Ged assunse la forma di un grande falco: non lo sparviero di cui gli davano il nome, ma il falcone pellegrino che vola come una freccia, come il pensiero.

Volò sulle forti ali screziate, inseguendo i suoi inseguitori. L’aria si oscurò, e tra le nubi le stelle brillarono ravvivandosi. Ged vide, più avanti, il nero stormo irregolare che si avventava verso un punto a mezz’aria. Oltre quel grumo nero si stendeva il mare, pallido dell’ultimo brillio cinereo del giorno. Velocissimo, il falco-Ged sfrecciò verso le creature della pietra, che si dispersero come acqua quando lui piombò in mezzo a loro. Ma avevano afferrato la preda. C’era sangue sul becco di uno, e piume bianche aderivano agli artigli di un altro, e non c’era un gabbiano che sorvolasse il pallido mare.

Già si voltavano verso Ged, avanzando sgraziati e rapidi col ferreo rostro spalancato. Volteggiando sopra di loro, lui lanciò il grido di rabbia e di sfida del falco; e poi saettò avanti, sopra le basse spiagge di Osskil, sopra i frangenti.

Le creature della pietra volteggiarono per un po’, gracchiando, e a una a una s’involarono ponderosamente verso l’entroterra, sulle brughiere. Le Vecchie Potenze non attraversano il mare, essendo ognuna legata a un’isola, a un certo luogo, a una grotta o pietra o sorgente. Le nere emanazioni tornarono alla torre, dove forse il signore del Terrenon, Benderesk, pianse al loro ritorno, o forse rise. Ma Ged proseguì, con le ali di falco, con la furia di falco, come una freccia infallibile, come un pensiero indimenticato, sopra il mare di Osskil, verso oriente, nel vento dell’inferno e della notte.

Ogion il Taciturno era tornato tardi a Re Albi dai suoi vagabondaggi autunnali. Col passare degli anni era divenuto più silenzioso e solitario. Il nuovo signore di Gont, nella città sottostante, non era mai riuscito a ottenere una parola da lui, sebbene fosse salito al Nido del Falco per cercare l’aiuto del mago in una spedizione piratesca alle Andrades. Ogion, che parlava ai ragni sulle loro tele ed era stato visto salutare cerimoniosamente gli alberi, non disse una parola al signore dell’isola, che se ne andò scontento. Forse c’era malcontento e inquietudine nella mente di Ogion, perché aveva trascorso tutta l’estate e l’autunno solo sulla montagna, e soltanto adesso, verso il solstizio, era tornato al focolare.

La mattina dopo il suo ritorno si alzò tardi; e poiché voleva prepararsi una tazza di tè di canna andò a prendere acqua alla sorgente che scorreva un poco più in basso sul fianco della collina, presso la casa. I margini della piccola polla della fonte erano ghiacciati, e il muschio riarso tra le rocce era segnato da fiori di brina. Era giorno fatto, ma per un’ora ancora il sole non avrebbe superato il poderoso dosso della montagna: tutta la parte occidentale di Gont, dalle spiagge alla vetta, era priva di sole, silenziosa e nitida nel mattino d’inverno. Mentre il mago stava accanto alla fonte, guardando le terre digradanti e il porto e le grige lontananze del mare, udì un batter d’ali sopra di lui. Levò lo sguardo, alzando leggermente un braccio. Un grande falco scese con un frastuono d’ali e gli si posò sul polso. Vi restò posato come un rapace da caccia ben addestrato, ma non aveva geti spezzati, né campanelli. Gli artigli erano piantati nel polso di Ogion: le ali screziate tremavano; gli occhi aurei e rotondi erano spiritati.

—  Sei un messaggero o un messaggio? — chiese gentilmente Ogion al falco. — Vieni con me… — Mentre parlava, il falco lo guardò. Ogion rimase un attimo in silenzio. — Una volta ti ho dato il nome, credo — disse; e poi si avviò verso casa ed entrò, continuando a portare il rapace sul polso. Depose il falco sul camino, al calore del fuoco, e gli offrì un po’ d’acqua. Il falco non volle bere. Allora Ogion cominciò a gettare un incantesimo, silenziosamente, intessendo la trama della magia più con le mani che con le parole. Quando l’incantesimo fu completo, disse sottovoce «Ged», senza guardare il falco sul focolare. Attese un po’, quindi si voltò e si avvicinò al giovane che stava davanti al fuoco, tremante, con gli occhi spenti.