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Le parole dell’incantesimo sibilavano e mormoravano sulle labbra di Ged. Poi lui gridò, forte e chiaro: — Elfarran!

Gridò di nuovo il nome: — Elfarran!

E per la terza volta: — Elfarran!

La massa informe d’oscurità che aveva sollevato si scisse. Si schiuse, e un pallido fuso di luce brillò tra le sue braccia aperte, un ovale fioco che saliva dal suolo fino all’altezza delle sue mani levate. Nell’ovale di luce si mosse per un momento una forma umana: una donna alta che girava all’indietro la testa. Il suo volto era bellissimo, e sofferente, e pieno di paura.

Lo spirito brillò solo per un istante. Poi l’ovale tra le braccia di Ged divenne più fulgido. S’ingrandì e si diffuse: uno squarcio nell’oscurità della terra e della notte, una lacerazione aperta nel tessuto del mondo, che lasciava passare un fulgore terribile. E attraverso quella breccia luminosa e deforme uscì qualcosa che sembrava un grumo d’ombra nera, rapido e orrendo, che balzò contro il volto di Ged.

Indietreggiando e barcollando sotto il peso della cosa, Ged proruppe in un breve grido rauco. Il piccolo otak che osservava dalla spalla di Veccia, l’animaletto che non aveva voce, gettò a sua volta un grido e si lanciò, come per attaccare.

Ged cadde, lottando e contorcendosi, mentre lo squarcio luminoso nella tenebra del mondo si allargava ancora. I ragazzi fuggirono e Diaspro si chinò verso terra, riparandosi gli occhi da quella luce terribile. Soltanto Veccia accorse verso l’amico. Perciò lui solo vide il grumo d’ombra che stava aggrappato a Ged, dilaniandolo. Era come una bestia nera, grossa quanto un bambino, sebbene sembrasse ingrandire e rimpicciolire; e non aveva testa né muso, ma solo le quattro zampe unghiute con cui stringeva e lacerava. Veccia singultò per l’orrore, e tuttavia tese le mani per strappar via la cosa dal corpo di Ged. Ma prima di toccarla si sentì legato, incapace di muoversi.

Il fulgore insopportabile sbiadì, e lentamente gli orli lacerati del mondo si richiusero. Vicino a loro una voce stava parlando sommessamente come lo stormire di un albero o il canto di una fontana.

La luce delle stelle riprese a brillare, e l’erba della collina s’imbiancò nella luce della luna che stava spuntando. La notte era risanata. L’equilibrio tra luce e tenebra era ristabilito. La bestia-ombra era scomparsa. Ged giaceva riverso, con le braccia protese come se compissero ancora l’ampio gesto di benvenuto e d’invocazione. Il suo volto era annerito dal sangue, e c’erano grandi macchie scure sulla sua camicia. Il piccolo otak stava accovacciato accanto alla sua spalla, tremante. E sopra di lui stava ritto un vecchio, avvolto in un mantello che scintillava pallido nel chiaro di luna: l’arcimago Nemmerle.

La punta del bastone di Nemmerle era librata argentea sul petto di Ged. Lo toccò una volta sul cuore, delicatamente, e una volta sulle labbra, mentre Nemmerle mormorava. Ged si mosse e le sue labbra si schiusero ansimanti. Poi il vecchio arcimago alzò il bastone e lo posò al suolo, appoggiandovisi pesantemente, a testa china, come se avesse a malapena la forza di reggersi.

Veccia si ritrovò libero di muoversi. Si guardò intorno e vide che altri erano già lì, il maestro evocatore e il maestro delle metamorfosi. Un atto di grande magia non si compie senza che tali uomini se ne accorgano, e loro accorrevano molto rapidamente quando il bisogno chiamava, sebbene nessuno fosse stato pronto come l’arcimago. Ora mandarono a chiedere aiuti, e alcuni andarono con l’arcimago mentre altri, tra cui Veccia, portavano Ged nelle stanze del maestro erborista.

Per tutta la notte l’evocatore restò a vigilare sulla collina di Roke. Nulla si muoveva sulle pendici dov’era stata dilaniata la struttura del mondo. Nessuna ombra si mosse strisciando nel chiaro di luna per cercare lo squarcio attraverso il quale avrebbe potuto far ritorno al suo regno. Era fuggita da Nemmerle e dalle possenti muraglie d’incantesimo che circondano e proteggono l’isola di Roke, ma ormai era nel mondo. E nel mondo, chissà dove, si nascondeva. Se Ged fosse morto quella notte, l’ombra avrebbe potuto cercare la porta da lui aperta e seguirlo nel regno della morte, o ritornare nel luogo da cui era venuta: per questo l’evocatore attendeva sulla collina di Roke. Ma Ged visse.

L’avevano adagiato sul letto nella camera delle guarigioni, e il maestro erborista gli curava le ferite al volto, alla gola e alla spalla. Erano profonde, irregolari e maligne. Il nero sangue non si coagulava, e continuava a sgorgare nonostante gli incantesimi e le foglie di perriot avvolte nelle ragnatele che venivano usate per arrestarlo. Ged giaceva cieco e muto nella febbre, come un ceppo nel fuoco lento, e non esistevano sortilegi che potessero raffreddare ciò che lo bruciava.

Non molto lontano, nel cortile scoperto dove zampillava la fontana, anche l’arcimago giaceva immoto ma freddo, freddissimo: solo i suoi occhi erano vivi, e guardavano cadere l’acqua rischiarata dalla luna e le fronde che stormivano. Coloro che gli stavano intorno non recitavano incantesimi e non operavano sortilegi per guarirlo. Parlavano tra loro sottovoce, di tanto in tanto, e poi si voltavano di nuovo a guardare il loro signore. Lui giaceva immobile, e la luce della luna dava un candore d’avorio al naso aquilino e all’alta fronte e ai capelli canuti. Per frenare l’incantesimo incontrollato e allontanare l’ombra da Ged, Nemmerle aveva esaurito tutto il proprio potere e insieme tutta la forza fisica. Stava morendo. Ma la morte di un gran mago, che per molte volte ha percorso in vita le aride e ripide pendici del regno della morte, è una cosa strana: perché il morente non se ne va alla cieca bensì con sicurezza, conoscendo la strada. Quando Nemmerle levò lo sguardo tra le fronde dell’albero, coloro che l’attorniavano non compresero se guardava le stelle dell’estate svanire allo spuntar del giorno o le altre stelle che non tramontano mai sulle colline che non vedono mai l’aurora.

Il corvo di Osskil che era il suo animale da compagnia da trent’anni era sparito. Nessuno aveva visto dove fosse andato. — Lo precede in volo — disse il maestro degli schemi mentre stavano vegliando.

Venne il giorno, caldo e limpido. Sulla Grande Casa e le vie di Thwil era calato un grande silenzio. Nessuno alzò la voce fino a quando, verso mezzogiorno, campane di ferro parlarono nella torre del Cantore, rintoccando aspramente.

Il giorno dopo i nove maestri di Roke si radunarono in un certo punto sotto gli scuri alberi del Bosco Immanente. Si circondarono di nove muri di silenzio, perché nessuna persona o nessun potere parlasse loro o li ascoltasse mentre sceglievano tra tutti i maghi di Earthsea colui che sarebbe diventato il nuovo arcimago. Fu prescelto Gensher di Way. Subito una nave venne inviata attraverso il mare Interno all’isola di Way, per portare l’arcimago a Roke. Il maestro del vento stava a poppa, suscitando il vento magico che riempì la vela; e la nave partì rapidamente e scomparve.

Ged non sapeva niente di tutto questo. Per quattro settimane di quell’estate afosa giacque cieco e sordo e muto, sebbene talvolta gemesse e gridasse come un animale. Infine, quando le pazienti arti del maestro erborista operarono la loro funzione, le ferite cominciarono a rimarginarsi e la febbre l’abbandonò. A poco a poco sembrò che riacquistasse l’udito, anche se non parlava mai. Un sereno giorno d’autunno il maestro erborista aprì le imposte della stanza in cui giaceva Ged. Dopo la tenebra di quella notte sulla collina di Roke, Ged aveva conosciuto soltanto l’oscurità: ora rivide la luce del giorno e il sole che splendeva. Si nascose la faccia sfregiata tra le mani e pianse.

Tuttavia, quando venne l’inverno, riusciva a parlare solo balbettando, e il maestro erborista lo tenne nelle stanze della guarigione, cercando di condurre gradualmente il suo corpo e la sua mente al recupero delle forze. Era l’inizio della primavera quando finalmente il maestro lo lasciò andare, inviandolo per prima cosa a promettere devozione all’arcimago Gensher. Ged non aveva potuto compiere tale dovere insieme a tutti gli altri della scuola, quando Gensher era giunto a Roke.