Изменить стиль страницы

«Non lo so, ma ho sentito che dovevo farlo» rispose Gibson con calore. «Non avrei più avuto pace se non ti avessi parlato. E poi ho avuto la sensazione che forse questo avrebbe fatto del bene anche a te.»

Seguì un nuovo silenzio. Infine Jimmy si alzò lentamente.

«Bisognerà che ci pensi, a quanto mi avete detto» disse con l’identica voce di poco prima, completamente priva di qualsiasi emozione. «Per il momento non so che cosa rispondervi.»

E si dileguò lasciando Gibson in uno stato di estrema incertezza e confusione, a chiedersi se per caso non si fosse comportato come un imbecille rammollito.

7

«Sono completamente impazziti?» tuonò Norden con il tono di un capo vichingo preso da furia bellica. «Bisognerà pure che ci diano una spiegazione! Non è tanto facile sbarcare su Deimos. Come pretendono che si possa scaricare? Adesso chiamo il Presidente e scateno un inferno!»

«Se fossi in te non lo farei» disse Bradley con il suo accento strascicato. «Non hai notato la firma? Questi non sono ordini che vengono dalla Terra via Marte. Sono partiti proprio dall’ufficio del Presidente. Il vecchio sarà un selvaggio, ma non agisce mai alla leggera, perciò avrà le sue buone ragioni.»

«Dimmene una, almeno!»

L’altro si strinse nelle spalle.

Norden allungò una mano verso il quadro di comando e girò un interruttore.

«Ehi, Mac… qui parla il Comandante. Mi senti?»

Seguì una breve pausa, poi dalla griglia uscì la voce di Hilton.

«Mac non c’è in questo momento. Devo riferirgli qualcosa?»

«Va bene, diglielo tu. Abbiamo ricevuto ordine da Marte di cambiare strada. Ci hanno proibito di sbarcare su Phobos, senza darci spiegazioni. Di’ a Mac di calcolare un’orbita per Deimos, e di avvertirmi non appena è pronto.»

«Non capisco. Su Deimos sono tutte montagne senza neanche un…»

«Sì, sì, lo sappiamo benissimo! Può darsi che si degnino di darci una spiegazione quando saremo là. Di’ a Mac di mettersi in contatto con me non appena può, capito?»

Il dottor Scott riferì la notizia a Gibson mentre il giornalista stava dando gli ultimi ritocchi al suo solito articolo settimanale.

«Nessuno sa il perché?»

«No. Siamo circondati dal più assoluto mistero. Abbiamo chiesto, ma Marte si rifiuta di rispondere.»

Gibson si grattò la fronte, vagliando e respingendo una mezza dozzina di ipotesi. Sapeva che Phobos, la luna interna, era stata allestita come base sin dalla prima spedizione marziana. A soli seimila chilometri dalla superficie del pianeta, e con una gravità inferiore a un millesimo di quella terrestre, rappresentava l’ideale per tale scopo. Le navi interspaziali costruite in lega superleggera potevano atterrare sicure su un mondo dove il loro peso totale era inferiore a una tonnellata e dove occorrevano vari minuti per una caduta di pochi metri. Un piccolo osservatorio, una stazione radio, qualche edificio pressurizzato costituivano le uniche costruzioni del minuscolo satellite che aveva un diametro di soli trenta chilometri. Su Deimos, la luna più piccola e più lontana, invece, non c’era niente a eccezione di un radiofaro automatico.

L’Ares doveva atterrare entro una settimana. Già Marte si presentava come un piccolo disco sulla cui superficie si vedevano anche a occhio nudo numerosi rilievi. A bordo vi era un gran da fare per scrutare il pianeta attraverso il telescopio mentre si svolgevano innumerevoli discussioni attorno a mucchi di carte e di fotografie. Gibson si era fatto prestare una proiezione di Mercatore su grande scala del pianeta e si era messo a studiarne la toponomastica.

Entro qualche giorno i motori dell’Ares avrebbero dovuto frenare la velocità di marcia dell’astronave. Il mutamento di velocità necessario per deflettere l’orbita di viaggio da Phobos a Deimos era trascurabile, ciononostante Mac aveva fatto calcoli per ore e ore.

Ogni pasto era condito da discussioni sullo stesso argomento: quello che si poteva fare non appena giunti su Marte. Gibson, il signore in vacanza, se ne sarebbe potuto andare subito, ma i lavoratori, come gli facevano rilevare gli altri, si sarebbero dovuti fermare su Deimos diversi giorni per la revisione della nave e per badare che il carico venisse sbarcato senza incidenti.

I progetti di Gibson si potevano riassumere in una sola frase: vedere il più possibile. Era forse un po’ ottimistico sperare di conoscere un intero pianeta nello spazio di due soli mesi, malgrado le reiterate affermazioni di Bradley che due giorni dedicati a Marte fossero anche troppi.

Il trambusto e l’emozione di quegli ultimi giorni di viaggio avevano distratto Gibson dai suoi problemi personali, almeno sino a un certo punto. Aveva rivisto Jimmy circa una decina di volte ai pasti e durante alcuni incontri occasionali, ma nessuno dei due aveva ripreso il delicato argomento di quella sera. Per un certo tempo Gibson aveva avuto il sospetto che il ragazzo lo evitasse di proposito, ma si rese quasi subito conto che non era affatto così. Come il resto dell’equipaggio, anche Jimmy era indaffaratissimo per i preparativi che preludevano alla fine del viaggio. Norden era ben deciso ad atterrare con la nave in perfetta efficienza, e per ottenere questo scopo bisognava fare una quantità enorme di controlli e di revisioni continue. Tuttavia, nonostante le multiformi attività che gravavano su di lui, Jimmy aveva riflettuto, e molto, a quanto gli aveva detto Gibson. In un primo momento aveva provato un senso di amarezza e di risentimento per l’uomo che era stato responsabile, anche se non intenzionalmente, dell’infelicità di sua madre. Ma poi aveva cominciato a immedesimarsi anche nel punto di vista di Gibson, e aveva finito col capirlo almeno in parte.

Faceva un effetto curioso riprendere peso a poco a poco e risentire di nuovo il rombo lontano dei motori. Le manovre per le ultime delicate correzioni di rotta occuparono oltre ventiquattr’ore. Quando tutto fu sistemato, Marte era diventato grande dodici volte la Luna, mentre Phobos e Deimos apparivano visibili come minuscole stelle i cui movimenti erano facilmente individuabili dopo pochi minuti di osservazione.

Gibson non si era mai reso pienamente conto sino a che punto fossero rossi i grandi deserti. Ma il semplice aggettivo rosso non dava un’idea esatta della multiforme gamma di sfumature che distinguevano il disco che ingrandiva lentamente. Alcune regioni apparivano quasi scarlatte, altre erano d’un giallo rossiccio, mentre la tinta forse più diffusa era quella che solitamente va sotto il nome di rosso mattone.

Nell’emisfero meridionale era primavera inoltrata, e la calotta polare era ridotta a pochi luccicanti puntini candidi là dove la neve indugiava ancora, cioè sulle alture più elevate. La vasta fascia di vegetazione tra il polo e il deserto era per la maggior parte di un verde bluastro, sfuocato. Su quel disco variegato era possibile trovare le più impensabili sfumature di colore.

L’Ares stava avanzando entro l’orbita di Deimos a una velocità relativa inferiore ai mille chilometri orari. Dinanzi all’astronave, la piccola luna era già perfettamente visibile, e con il trascorrere delle ore crebbe tanto che, vista a poche centinaia di chilometri di distanza, sembrava grande quanto Marte. Ma quale contrasto col pianeta principale. Lì, niente rossi né verdi opulenti, bensì un nero caos di rocce accatastate alla rinfusa, di montagne a picco svettanti verso le stelle in ogni senso, in un triste universo di gravità praticamente nulla.

Lentamente le rocce aguzze scivolarono di fianco a loro mentre l’Ares si dirigeva sicura verso il radiofaro di cui Gibson aveva udito il segnale alcuni giorni prima.

Poco dopo, a pochi chilometri sotto di sé, lungo una zona quasi livellata, Gibson vide i primi segni che rivelavano il passaggio dell’uomo su quel mondo desolato. Due file di pilastri verticali si alzavano dal suolo, e tra questi si intersecava tutta una fitta rete di cavi. Quasi impercettibilmente l’Ares calò verso Deimos. I razzi principali erano stati spenti da parecchio perché il peso della nave era ormai ridotto a poche centinaia di chili.