— Non conosciamo la sua specifica identità né la sua registrazione — dice de Soya. — Ma abbiamo le riprese video fatte dalla Sant’Antonio e dalla San Bonaventura, prima che la nave traslasse. Non è Ouster.
— Non è Ouster, non è della Pax, non è della Mercatoria, non è una spin-nave e neppure una nave torcia… — dice Kee. — Che diavolo è, allora?
De Soya amplia le immagini della sezione trasversale della nave. — Spazionave privata, epoca dell’Egemonia — dice piano. — Ne furono costruite meno di trenta. Almeno quattrocento anni, probabilmente più vecchia.
Il caporale Kee emette un fischio sottovoce. Gregorius si strofina la mascella. Perfino Rettig, dietro la maschera impassibile, pare impressionato. — Non sapevo che esistessero spazionavi private — dice il caporale. — Con motore C-più, intendo.
— L’Egemonia le dava come ricompensa ai pezzi più grossi — dice de Soya. — Il primo ministro Gladstone ne aveva una. Un’altra apparteneva al generale Horace Glennon-Height…
— Lui non l’ha certo avuta in premio dall’Egemonia — ridacchia Kee. Glennon-Height è stato il nemico più infame e leggendario che l’Egemonia abbia avuto agli inizi… l’Annibale della Periferia per la Roma della Rete dei Mondi.
— No — ammette de Soya. — Glennon-Height la rubò al governatore planetario di Sol Draconis Septem. Comunque il computer dice che tutte le spazionavi private furono distrutte prima della Caduta… smantellate o modificate per uso militare nella FORCE e poi poste fuori servizio… ma a quanto pare il computer si sbaglia.
— Non sarebbe la prima volta — brontola Gregorius. — Quelle immagini da lontano mostrano armamenti o sistemi difensivi?
— No, in origine erano navi civili disarmate e i sensori della San Bonaventura non hanno rilevato segnali radar né a impulso, prima che lo Shrike uccidesse la squadra di registrazione. Ma quella nave circola da secoli, quindi dobbiamo presumere che sia stata modificata. Ma se anche avesse un moderno armamento Ouster, la Raffaele dovrebbe riuscire ad avvicinarsi velocemente, mentre teniamo a bada le loro scariche. Una volta affiancata, non può usare armi cinetiche. Appena l’abbordiamo, le armi a energia saranno inutili.
— Corpo a corpo — dice tra sé Gregorius. Studia i disegni. — Ci aspetteranno al portello della camera stagna, perciò apriremo un nuovo ingresso qui… e qui…
De Soya sente un prurito d’allarme. — Non possiamo far uscire l’aria. La bambina…
Gregorius mostra un sorriso da pescecane. — Niente paura, signore. Occorre meno di un minuto per montare con mezzi di fortuna un grosso acchiappa-aria all’esterno dello scafo… ne ho portati alcuni, insieme con le armature. Poi facciamo implodere la sezione dello scafo, entriamo di corsa… — Ingrandisce l’immagine. — L’adatterò per il simulatore, così per qualche giorno possiamo fare prove in 3-D. Sarebbe bene che avessimo un’altra settimana per le simulazioni. — Si gira verso de Soya. — Forse alla fin fine non avremo tempo per ciondolare a letto in crio-fuga, signore.
Kee si tormenta il labbro. — Una domanda, Capitano.
De Soya lo guarda.
— In nessun caso dobbiamo arrecare danno alla bambina, d’accordo, ma se ci troveremo altri fra i piedi?
De Soya sospira. S’aspettava la domanda. — Preferirei, caporale, che nessuno morisse in questa missione.
— Sissignore — dice Kee, attento. — Ma se tentano di fermarci?
Il Padre Capitano de Soya libera il monitor. Il piccolo quadrato ufficiali puzza d’olio e di sudore e d’ozono. — I miei ordini dicono che non bisogna nuocere alla bambina — replica de Soya, lentamente, con cura. — Non parlano di altri. Se nella nave c’è qualcun altro… o qualcos’altro… e se tenta d’interferire, consideratelo sacrificabile. Difendetevi, anche a costo di sparare prima d’essere sicuri di correre pericoli.
— Uccidere tutti — borbotta Gregorius — tranne la bambina… e che Dio rimetta insieme i loro pezzi.
De Soya ha sempre odiato quell’antica battuta dei mercenari.
— Fate ciò che va fatto, senza mettere in pericolo la vita o la salute della bambina — dice.
— E se sulla nave c’è solo un altro che si frappone tra noi e la bambina… — obietta Rettig. Gli altri tre lo fissano. — Ma è lo Shrike? — termina Rettig.
Il quadrato ufficiali è silenzioso, a parte gli onnipresenti rumori della nave: l’espansione e la contrazione metallica dello scafo, il fruscio dei ventilatori, il ronzio dei macchinari, l’occasionale singulto di un propulsore.
— Se è lo Shrike… — comincia il Padre Capitano de Soya. Esita.
— Se è il fottuto Shrike — interviene il sergente Gregorius — gli faremo un paio di sorprese. Forse stavolta non andrà tanto liscia, a quel figlio di puttana tutto punte, scusi l’espressione, Padre.
— In qualità di tuo prete — dice de Soya — ti ammonisco di nuovo a non usare espressioni irriverenti. In qualità di tuo ufficiale comandante, ti ordino di fargli un bel po’ di sorprese, a quel figlio di puttana tutto punte.
Aggiornano la riunione per consumare la cena e per stabilire le rispettive strategie.
21
Avete mai notato come in un viaggio, anche molto lungo, sia spesso la prima settimana, quella che rimane con maggiore chiarezza nella memoria? Forse si tratta dell’arricchimento di percezione che i viaggi comportano, o forse di un effetto della risposta orientativa sui sensi; forse, semplicemente, anche l’incanto della novità in breve si consuma; ma, in base alla mia esperienza, i primi giorni in un posto nuovo o la vista di persone nuove spesso stabiliscono il tono del resto del viaggio. O del resto della mia vita, nel caso specifico.
Il primo giorno della nostra spettacolare avventura lo passammo dormendo. La bambina era sfinita e io (fui costretto a riconoscerlo, al risveglio da sedici ore di sonno ininterrotto) pure. Non posso attestare che cosa abbia fatto A. Bettik in quel sonnambulistico primo giorno di viaggio (a quel punto non avevo ancora scoperto che pure gli androidi dormono, ma hanno bisogno di una minima parte del tempo che noi esseri umani sprechiamo in stato comatoso), ma aveva sistemato nella sala motori lo zainetto con le sue cose, si era montato un’amaca e aveva trascorso laggiù gran parte del tempo. Avevo avuto intenzione di lasciare alla bambina la "stanza da letto principale" posta in cima alla nave, nel cui adiacente stanzino da bagno lei aveva fatto la doccia quella prima mattina, ma Aenea sistemò sul ponte di crio-fuga una delle culle e in breve quello divenne il suo ambiente privato. Io mi godetti il largo e morbido letto al centro della stanza circolare in punta alla nave e, dopo un poco, riuscii anche a vincere l’agorafobia e lasciai che lo scafo divenisse trasparente per guardare lo spettacolo di luce frattale nello spazio Hawking. Tuttavia non mantenni mai a lungo la trasparenza dello scafo, perché quelle geometrie pulsanti continuavano a disturbarmi in maniera che non saprei descrivere.
Il piano biblioteca e il piano piazzola olografica erano, per tacito accordo, spazio comune. La cucina (A. Bettik la chiamava "cambusa") era posta nella parete del piano con la piazzola olografica e di solito consumavamo i pasti intorno al basso tavolino nella piazzola stessa, ma a volte ci portavamo il cibo sul tavolo rotondo accanto alla saletta navigazione. Ammetto che, subito dopo il risveglio e la "colazione" (l’ora di bordo diceva che su Hyperion era pomeriggio, ma perché regolarmi sul tempo di Hyperion, quando avrei potuto anche non vedere mai più quel pianeta?) mi diressi alla biblioteca: i libri erano molto vecchi, tutti pubblicati durante l’Egemonia o prima ancora, e con sorpresa trovai una copia di un poema epico di Martin Sileno, Il crepuscolo della Terra, oltre a volumi di una decina d’autori classici da me letti da ragazzo e spesso riletti durante le lunghe giornate nella baracca sulla palude o al lavoro sul fiume.