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Se non fosse stato per i nostri cronometri, mi sembra giusto dirlo, nei tunnel di ghiaccio di Sol Draconis Septem il tempo sarebbe scomparso. L’immutabile fioca luce proveniente dal braciere d’osso, il luccichio delle pareti di ghiaccio, l’oscurità davanti a noi e dietro di noi, il gelo opprimente, i brevi periodi di sonno e le lunghe ore di fatica per percorrere i tunnel portando sulla schiena il peso della gravità del pianeta… tutto si combinava per distruggere il nostro senso del tempo. Ma secondo il cronometro, fu nel tardo pomeriggio del terzo giorno da quando avevamo abbandonato la zattera che scendemmo l’ultimo tratto di cunicolo e tornammo al fiume.

Fu una triste scena: l’albero maestro spezzato e i tronchi scheggiati, la prua quasi sommersa per l’accumulo di ghiaccio, la lanterna imbiancata da una patina di brina, il senso di vuoto e d’abbandono dell’imbarcazione priva della tenda e delle attrezzature. I Chitchatuk rimasero affascinati e mostravano un’animazione che non avevamo mai visto in loro dal giorno del nostro incontro. Usando funi di pelle intrecciata, Cuchiat e alcuni altri si calarono sulla zattera ed esaminarono attentamente ogni cosa: la pietra focolare, le lanterne metalliche, la fune di nylon adoperata per legare i tronchi. La loro animazione era tangibile e mi resi conto che in una società dove un unico tipo d’animale (abile predatore, oltretutto) rappresentava l’unica fonte di materiali da costruzione, d’armamento e di vestiario, la zattera era un vero e proprio tesoro di materie prime.

Avrebbero potuto tentare di ucciderci e di appropriarsi di quella ricchezza, ma i Chitchatuk erano gente generosa e neppure la cupidigia poteva modificare la loro convinzione che tutti gli esseri umani erano alleati, proprio come tutti gli spettri artici erano nemici e prede. Fino a quel momento non avevamo ancora visto uno spettro artico… a parte, è logico, le pelli che ora portavamo sopra i nostri vestiti, poiché le pellicce erano incredibilmente calde e in capacità isolante rivaleggiavano con la termocoperta, tanto che avevamo rimesso negli zaini parte dell’abbigliamento. Ma se allora eravamo all’oscuro della potenza e della fame degli spettri artici, ben presto le avremmo sperimentate.

Ancora una volta Aenea trasmise il concetto di noi che galleggiavamo lungo il fiume e attraversavamo l’arcata. Descrisse a gesti la muraglia di ghiaccio… la indicò… e poi mostrò la continuazione del nostro viaggio sul fiume fino alla seconda arcata.

Questo animò maggiormente Cuchiat e la sua banda; i Chitchatuk cercarono di parlarci senza usare il linguaggio dei segni e c’investirono di frasi che alle nostre orecchie parvero cascate di ciottoli. Visto che non riuscivano a spiegarsi, si girarono e parlarono animatamente fra loro. Alla fine Cuchiat avanzò di un passo e ci rivolse una breve frase. Udimmo la parola "glauco" ripetuta varie volte (l’avevamo già notata nei loro discorsi, perché pareva estranea alla loro lingua) e quando Cuchiat gesticolò verso l’alto e ripeté il segno per indicare che tutti salivamo verso la superficie, concordammo volentieri.

E così, ciascuno infagottato in pelliccia di spettro artico, la schiena piegata sotto il peso dello zaino e dell’estenuante gravità, strusciando i piedi sul ghiaccio duro come roccia, ci dirigemmo alla città sepolta dove avremmo incontrato il prete.

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Quando infine giunge, l’invito di rilasciare il Padre Capitano de Soya dai virtuali arresti domiciliari nel rettorato dei Legionari di Cristo non proviene dal Sant’Uffizio dell’Inquisizione, come ci si aspettava, ma è portato di persona da monsignor Luca Oddi, sottosegretario del Segretario di Stato del Vaticano cardinale Simon Augustino Lourdusamy.

Per de Soya, la passeggiata nella Città del Vaticano e nei Giardini Vaticani è quasi sconvolgente. Qualsiasi cosa il Padre Capitano veda e senta… il cielo azzurro chiaro di Pacem, lo svolazzare di fringuelli nei frutteti di peri, il sommesso rintocco di campane del Vespro… provoca in lui una profonda commozione, al punto che deve farsi forza per trattenere le lacrime. Intanto, mentre camminano, monsignor Oddi conversa amabilmente, mescolando pettegolezzi locali e storielle, in un modo che fa ancora ronzare le orecchie a de Soya anche quando si è lasciato alle spalle da un pezzo la parte dei giardini dove le api svolazzano fra lo spiegamento di fiori.

De Soya si concentra sull’alto, anziano prelato che lo guida a passo così vivace. Oddi è molto alto e avanza come se scivolasse: le sue lunghe gambe non fanno quasi rumore, sotto l’abito talare. Ha un viso sottile e scaltro, pieghe e rughe modellate da molti decenni di facezie, un lungo naso a becco che pare fiutare l’aria del Vaticano in cerca di umorismo e di pettegolezzi. De Soya ha già sentito le battute su monsignor Oddi e il cardinale Lourdusamy, l’uomo alto e scherzoso e l’uomo gigantesco e scaltro: insieme, hanno un aspetto quasi comico… se ci si dimentica del potere davvero terrificante di cui dispongono.

Quando escono dai giardini ed entrano in uno degli ascensori esterni che portano alle logge del palazzo vaticano, per un attimo de Soya rimane sorpreso. Guardie Svizzere, risplendenti nell’antica uniforme a righe rosse, blu e arancione, scattano sull’attenti, quando i due entrano e poi escono dalle gabbie a rete dell’ascensore. Le Guardie Svizzere portano lunghe picche, ma de Soya rammenta che funzionano anche come carabine al plasma.

— Forse ricorda che Sua Santità, durante la prima risurrezione, decise di occupare questo piano per la propria passione verso il suo omonimo, Giulio II — dice monsignor Oddi, indicando con un ampio gesto il lungo corridoio.

— Sì — dice de Soya. Sente il cuore battere con violenza. Papa Giulio II, il famoso Papa guerriero che aveva commissionato il soffitto della cappella Sistina, durante il proprio regno, dal 1503 al 1513, era stato il primo ad abitare in quelle stanze. Ora Papa Giulio, in tutte le sue incarnazioni da Giulio VI a Giulio XIV, è vissuto e ha regnato lì per un periodo quasi ventisette volte superiore al decennio del primo Papa guerriero. "Di sicuro non sto per incontrare il Santo Padre!" pensa de Soya. Mentre imboccano l’ampio corridoio, riesce a mostrarsi calmo, ma ha le mani sudate e il respiro affannoso.

— Vedremo il Segretario, ovviamente — dice Oddi, con un sorriso. — Ma se lei non ha mai visto gli appartamenti papali, questa è una piacevole passeggiata. Oggi, per tutto il giorno, Sua Santità è in riunione con il Sinodo interstellare dei Vescovi, nella sala piccola di palazzo Nervi.

De Soya annuisce con aria attenta, ma a dire il vero è interessato alle stanze di Raffaello, che al passaggio intravede dalle porte aperte degli appartamenti papali. Conosce a grandi linee la storia: Papa Giulio n si stancò degli affreschi "vecchia maniera" di maestri di minore importanza come Piero della Francesca e Andrea del Castagno, perciò nell’autunno del 1508 chiamò da Urbino un geniale giovanotto di ventisei anni, Raffaello Sanzio, noto anche solo come Raffaello. In una sala de Soya vede la Stanza della Segnatura, un mirabile affresco che rappresenta il Trionfo della Verità Religiosa in contrasto con il Trionfo della Verità Filosofica e Scientifica.

— Ahhh — dice monsignor Oddi, soffermandosi in modo che de Soya possa ammirare per qualche momento l’affresco. — Le piace, vero? Vede Piatone, là tra i filosofi?

— Sì — risponde de Soya.

— Sa a chi assomigliava in realtà? Chi fu il modello?

— No — ammette de Soya.

— Leonardo da Vinci — dice il monsignore, con una traccia di sorriso. — Ed Eraclito… lo vede, là? Sa a chi s’ispirò Raffaello?

De Soya può solo scuotere la testa. In quel momento ricorda la piccola cappella mariana di mattoni cotti al sole, sul suo pianeta natale, con la sabbia che s’infilava in continuazione sotto i battenti e si accumulava ai piedi della statua della Vergine.