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Potrei però ancora chiederle se vuol venire a cena con me. Potrei farlo prima o dopo il trattamento. Forse.

Giovedì mattina. Tempo freddo e ventoso, con nuvole grigie che corrono attraverso il cielo. Mentre attraverso il parcheggio della compagnia verso il nostro edificio il vento m'investe. Sento un'automobile dietro di me e mi volto. È quella di Linda, che parcheggia al suo solito posto. Esce senza guardarmi.

Alla porta inserisco la mia chiave magnetica e apro il battente. Lo tengo aperto e aspetto Linda. Lei ha sollevato lo sportello del portabagagli e sta tirando fuori uno scatolone. È come quello che aveva il signor Crenshaw.

Non ho pensato a portare una scatola per metterci le mie cose. Mi chiedo se riuscirò a trovarne una durante la pausa pranzo. Mi chiedo se Linda ha portato una scatola perché ha deciso di accettare il trattamento.

La tiene sotto il braccio e cammina in fretta, col vento che le getta all'indietro i capelli. Il suo viso sembra diverso, nudo e scolpito come quello di una statua, sgombro di paure e di ansie.

Mi passa davanti reggendo la scatola e io la seguo all'interno dell'edificio. Bailey è nell'atrio.

— Hai una scatola — dice a Linda.

— Pensavo che potesse servire a qualcuno — spiega Linda. — L'ho portata per questo.

— Io ne porterò una domani — dice Bailey. — Lou, te ne vai oggi o domani?

— Oggi — rispondo. Linda mi guarda e mi tende la scatola. — Mi può servire — dico, e lei me la dà senza incontrare i miei occhi.

Entro nel mio ufficio. Ha un'aria già estranea come l'ufficio di un altro. Sposto il piccolo ventilatore che fa muovere le girandole e le spirali, poi lo riporto dov'era. Siedo sulla mia poltrona e mi guardo intorno. L'ufficio è lo stesso, ma io non sono la stessa persona.

Guardo nei cassetti della mia scrivania e non trovo altro che una vecchia pila di manuali per l'aggiornamento del sistema. Era vietato stamparli, ma è più agevole leggere le cose scritte sulla carta. Tutti usavano i miei manuali. Non voglio lasciare queste copie vietate qui mentre io sarò in clinica. C'è anche una copia del Manuale degli impiegati. Tiro fuori tutto e metto il Manuale degli impiegati sopra agli altri manuali. Non so cosa fare con questa roba.

Nel cassetto di fondo c'è una vecchia decorazione con dei pesci che tenevo appesa finché il pesce più grande non si deformò. Adesso la superficie lucente dei pesci è coperta di piccole macchie nere. La tiro fuori e la getto nel cestino della carta straccia, rabbrividendo ai piccoli tintinnii che emette.

Nel cassetto centrale tengo penne colorate e un piccolo contenitore di plastica con degli spiccioli per la macchina che vende le bibite. Mi metto in tasca il contenitore e metto le penne sulla scrivania. Guardo gli scaffali. Contengono informazioni sui progetti, schedari, tutte cose di proprietà della compagnia. Non dovrò toccar nulla, lì. Tolgo dal soffitto le girandole e le spirali cominciando da quelle che non sono le mie favorite, quelle gialle e argento, quelle arancioni e quelle verdi.

Sento nell'atrio la voce del signor Aldrin che parla con qualcuno. Apre la mia porta.

— Lou, ho dimenticato di ricordare a tutti di non portar via dal campus qualunque materiale relativo al vostro lavoro. Se avete materiale del genere, riunitelo ed etichettatelo spiegando che deve andare in archivio.

— Sì, signor Aldrin — dico.

— Verrai al campus domani?

— Non credo — dico. — Non voglio cominciare un lavoro che poi lascerei incompiuto. Entro oggi avrò sgomberato tutto, qui.

— Bene. Hai ricevuto la lista dei preparativi raccomandati?

— Sì.

— Bene. Io… — Getta un'occhiata alle proprie spalle, poi entra nel mio ufficio e chiude la porta. Mi sento di colpo nervoso. — Lou… — il signor Aldrin esita, si schiarisce la gola e guarda altrove. — Lou, io… io voglio dirti che mi dispiace per quanto è avvenuto.

Non so quale risposta si aspetti. Non dico nulla.

— Io non avrei mai voluto… se le cose fossero dipese da me, nulla sarebbe cambiato…

Si sbaglia. Tutto sarebbe cambiato. Don sarebbe ugualmente andato in collera con me. Io mi sarei ugualmente innamorato di Marjory. Non so perché stia dicendo questo: lui dovrebbe sapere che le cose cambiano, sia che uno lo voglia sia che non lo voglia. Uno può giacere accanto a una piscina per mesi e anni pensando all'angelo che deve scendere, prima che qualcuno gli chieda se vuole esser guarito.

L'espressione sulla faccia di Aldrin mi ricorda come mi sono sentito tante volte. Mi rendo conto che ha paura. Lui ha spesso paura di qualcosa. Fa male aver paura per molto tempo, io lo so. Vorrei che non avesse quell'espressione, perché mi fa sentire che dovrei far qualcosa in proposito e non so cosa fare.

— Non è colpa sua — dico. Lo vedo rilassarsi. Era la cosa giusta da dire. Pure, è troppo facile. Io posso dirla, ma questo la rende vera? Le parole possono essere sbagliate. Le idee possono essere sbagliate.

— Vorrei essere sicuro che tu davvero sei… che davvero vuoi il trattamento — dice. — Nessuno più ti fa pressione…

Si sbaglia di nuovo, benché possa aver ragione nel dire che adesso la compagnia non ci costringe più. Ma adesso che io so che il cambiamento è inevitabile, adesso che so che è possibile, la pressione dentro di me cresce come l'aria gonfia un pallone o la luce pervade lo spazio. La luce non è passiva, preme contro qualunque cosa tocchi.

— È la mia decisione — dico. Intendo che io ho deciso, che sia giusto o sbagliato. Anch'io posso sbagliare.

— Grazie, Lou — dice il signor Aldrin. — Tu… voi tutti… significate molto per me.

Non so cosa voglia dire quel "significate molto per me". Letteralmente potrebbe voler dire che noi conteniamo molto significato che lui può ricevere da noi, ma non credo sia questo che il signor Aldrin intende. Comunque non chiedo spiegazioni. Sono ancora un po' a disagio quando penso a tutte le volte che ci ha parlato. Non dico nulla. Dopo 9,3 secondi lui fa un cenno col capo e si volta per andar via. — Abbi cura di te — dice. — Buona fortuna.

Osservo che non dice "spero che tutto vada bene". Non so se lo faccia per ragioni di tatto o se pensi che tutto possa non andar bene. Esce nell'atrio e sento i suoi passi allontanarsi. Mi rilasso e tiro un respiro profondo. Finisco di togliere le mie girandole, spirali e decorazioni preferite. L'ufficio appare nudo, mentre la mia scrivania è ingombra. Non so se tutto entrerà nella scatola di Linda. Forse riuscirò a trovare un'altra scatola. Meglio sbrigarsi. Appena metto piede nell'atrio vedo Chuy alla porta che si dà da fare per tenerla aperta e infilarci dentro diverse scatole. Gli tengo aperto il battente.

— Ne ho portata una per ciascuno — dice. — Per risparmiare tempo.

— Linda ne ha portata una che sto adoperando io — spiego.

— Forse a qualcuno ne serviranno due — dice. — Tu puoi averne una se ti serve.

— Me ne serve una — dico. — Grazie.

Prendo una scatola più grande di quella portata da Linda e torno nel mio ufficio. Metto i manuali in fondo perché sono più pesanti, poi le penne tra i manuali e un lato della scatola, poi il ventilatore e infine le mie girandole, spirali e decorazioni. Penso al vento fuori. Sono leggere, potrebbero volar via.

Nell'ultimo cassetto trovo l'asciugamano che adopero per asciugarmi i capelli quando ho camminato dal parcheggio a qui nella pioggia. Lo ripiego e lo metto sulla scatola a riparare tutto il resto. Prendo su la scatola, nella quale è entrato tutto. Adesso sto facendo quello che ha fatto il signor Crenshaw: porto una scatola con dentro le mie cose fuori del mio ufficio. Se qualcuno mi guardasse, forse gli ricorderei lui, tranne che accanto a me non ci sono guardie. Io e il signor Crenshaw non ci somigliamo. Questa è la mia scelta; non credo che lui se ne sia andato di sua scelta. Mentre mi avvicino alla porta Dale esce dal suo ufficio. Mi apre il battente.