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«Professor Langdon?» disse andandogli incontro. «Sono Trent Anderson, il responsabile della sicurezza in Campidoglio. C’è una telefonata per lei.»

«Per me?» Langdon sgranò gli occhi azzurri, preoccupato e perplesso.

Anderson gli porse il telefono. «L’Office of Security della CIA.»

«Mai sentito nominare.»

Anderson sorrise minaccioso. «A quanto pare, loro hanno sentito nominare lei.»

Langdon accostò il telefono all’orecchio. «Pronto?»

«Robert Langdon?»

La voce gracchiante di Sato era abbastanza forte da arrivare anche a Anderson.

«Sì?»

Anderson si avvicinò per sentire meglio.

«Sono Inoue Sato, direttore dell’Office of Security. Sto gestendo una crisi e credo che lei abbia informazioni che mi potrebbero essere utili, professore.»

«Si tratta di Peter Solomon? Lei sa dove si trova?» chiese Langdon speranzoso.

Peter Solomon ? Anderson si sentì completamente tagliato fuori.

«Professore, per il momento sono io a fare le domande» ribatté Sato.

«Peter Solomon è in grave pericolo» insistette Langdon. «Uno psicopatico gli ha…»

«Mi scusi» lo interruppe bruscamente Sato.

Anderson rabbrividì. Mai contraddire un alto funzionario della CIA. Solo un civile poteva commettere un simile errore. Pensavo che Langdon fosse più furbo.

«Mi stia bene a sentire» continuò Sato. «In questo preciso momento, il paese è sull’orlo di una crisi. Mi risulta che lei abbia informazioni che possono aiutarmi a evitarla. Perciò, di nuovo, le domando: di quali informazioni è in possesso, professore?»

Langdon era completamente disorientato. «Direttore, non ho idea di cosa stia parlando. A me preme soltanto trovare Peter e…»

«Non ne ha idea?» ripetè Sato in tono di sfida.

«Nossignore, non ne ho la più pallida idea.»

Anderson trasalì. No, no. Errore gravissimo. Robert Langdon aveva appena commesso un altro passo falso con il direttore Sato che gli sarebbe costato molto caro.

Troppo tardi. Il responsabile della sicurezza sgranò gli occhi vedendo entrare a passo svelto nella Rotonda, alle spalle di Langdon, il direttore Sato in persona. Sato è qui! Anderson, con il fiato sospeso, si preparò al peggio. Langdon non sa che cosa lo aspetta.

Il direttore si avvicinava con aria torva, il telefono appoggiato all’orecchio e gli occhi neri puntati come due raggi laser su Langdon.

Langdon stringeva il telefono del responsabile della sicurezza, sempre più frustrato. «Mi dispiace, signore» disse al direttore dell’os. «Non ho il dono della telepatia. Che cosa vuole da me?»

«Che cosa voglio da lei?» La voce di Inoue Sato risuonò all’orecchio di Langdon roca e stridula come quella di un moribondo con un’infezione da streptococco alla gola.

Mentre ascoltava, Langdon si sentì battere leggermente su una spalla. Si voltò e si trovò davanti… una giapponese minuta dall’espressione furibonda, con la pelle chiazzata, i capelli radi, i denti macchiati dalla nicotina e una brutta cicatrice alla base del collo. Con la mano nodosa teneva un cellulare vicino all’orecchio e i movimenti delle sue labbra corrispondevano ai suoni emessi dalla voce rasposa che giungeva a Langdon dal telefono.

«Che cosa voglio da lei, professore?» Inoue Sato chiuse con calma il cellulare e fulminò Langdon con un’occhiata. «Tanto per cominciare, che la smetta di chiamarmi "signore".»

Langdon sgranò gli occhi, mortificato. «Signora… Mi scusi. La ricezione era pessima e io…»

«La ricezione era ottima, professore» ribatté lei. «E io non tollero i bugiardi.»

17

Il direttore Inoue Sato era un personaggio temibile: alta meno di un metro e mezzo, intrattabile, era scheletrica, con lineamenti spigolosi e una malattia della pelle, la vitiligine, che le dava l’aspetto screziato di un blocco di granito infestato dai licheni. Indossava un tailleur pantalone blu sgualcito che le pendeva addosso come un sacco informe e una camicetta bianca con il colletto sbottonato che non tentava neppure di nascondere la cicatrice. La sua unica concessione alla vanità, a quanto dicevano i suoi collaboratori, consisteva nello strapparsi i baffi.

Inoue Sato era a capo dell’Office of Security della CIA da oltre dieci anni. Aveva un quoziente di intelligenza molto più alto della media e un fiuto pressoché infallibile, e la combinazione di queste due doti la rendeva molto sicura di sé. Inoue Sato terrorizzava chiunque non fosse in grado di fare anche l’impossibile. Nemmeno la diagnosi di un aggressivo cancro alla gola l’aveva scalzata dal suo piedistallo. La lotta con la malattia le era costata un mese di lavoro, mezza laringe e un terzo del suo peso, ma Inoue Sato era tornata in ufficio come se niente fosse. Sembrava davvero indistruttibile.

Langdon sospettava di non essere stato il primo a scambiarla per un uomo al telefono, ma lei continuava a fissarlo come se volesse incenerirlo.

«Le rinnovo le mie scuse, signora» disse. «Sono ancora disorientato: una persona che si è fatta passare per Peter Solomon mi ha attirato qui a Washington con l’inganno, stasera.» Tirò fuori dalla tasca della giacca il fax. «Mi ha spedito questo. Ho annotato il numero di coda dell’aereo con cui mi ha mandato a prendere, quindi forse se chiama la FAA e si fa dare…»

Con un gesto fulmineo, Sato gli strappò di mano il foglio e se lo mise in tasca senza nemmeno guardarlo. «Professore, le ricordo che sono io a dirigere le indagini. Finché non mi avrà detto quello che voglio sapere da lei, le consiglio di parlare solo se interrogato.»

Poi si voltò di scatto verso Trent Anderson.

«Lei» lo apostrofò avvicinandosi decisamente troppo e guardandolo dal basso con i suoi occhietti furibondi. «Le dispiacerebbe spiegarmi che cosa diavolo sta succedendo? L’agente all’ingresso est mi ha detto che avete trovato una mano mozza per terra. È vero?»

Anderson si fece da parte e le mostrò l’oggetto al centro della sala. «Sì, signora, è successo pochi minuti fa.»

Inoue Sato guardò la mano come se fosse uno straccio dimenticato lì per caso. «Però lei non mi ha detto niente quando ci siamo parlati.»

«Pensavo… pensavo che lo sapesse già.»

«Non mi racconti balle.»

Anderson si sentì mortificato, ma reagì con voce sicura: «Signora, la situazione è sotto controllo».

«Ne dubito» ribatté lei in tono altrettanto sicuro.

«Sta per arrivare una squadra della Scientifica. Chiunque sia stato, avrà lasciato delle impronte…»

Sato pareva scettica. «Secondo me, una persona abbastanza in gamba da superare i vostri controlli di sicurezza e portare qui dentro una mano mozza è anche in grado di non lasciare impronte.»

«Può darsi, ma è mia responsabilità controllare.»

«Non si preoccupi: da questo momento lei è sollevato da qualsiasi responsabilità. Assumo io il comando.»

Anderson si irrigidì. «Questa cosa non è di competenza dell’OS, o sbaglio?»

«Sbaglia. È una questione di sicurezza nazionale.»

La mano di Peter una questione di sicurezza nazionale? Langdon assisteva esterrefatto a quel battibecco. Aveva la sensazione che la priorità di Inoue Sato non fosse trovare al più presto Peter. Il direttore dell’OS sembrava avere tutt’altre preoccupazioni.

Anche Anderson aveva l’aria perplessa. «Sicurezza nazionale? Con tutto il rispetto, signora…»

«A quanto mi risulta, il mio grado è superiore al suo, quindi le consiglio di eseguire gli ordini senza discutere.»

Anderson annuì e mandò giù il rospo. «Ma non dovremmo almeno prendere le impronte della mano mozza per accertare che sia di Peter Solomon?»

«Posso confermarvelo io» disse Langdon, che ne era tragicamente certo. «Riconosco l’anello, e anche la mano.» Dopo una pausa, aggiunse: «I tatuaggi, però, sono nuovi. Glieli hanno fatti di recente».

«Come, scusi?» Sato parve esitare per la prima volta da quando era arrivata. «La mano è tatuata?»