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Si alzò e si diresse verso la finestra, stringendo le grosse mani l’una nell’altra. Glair udì un rumore secco, mentre lui faceva schioccare le nocche.

Poi l’uomo riprese: — Ti ho esaminato. Le due gambe rotte. Mentre ne stavo osservando una, semplicemente toccandola per capire l’entità della lesione, ho sentito l’osso che scivolava al suo posto. Che razza di ossa hai, a proposito? Dovevano essersi spezzate di netto, eppure si sono rimesse in sesto da sole. Tu non sudi nemmeno. E non espelli rifiuti organici. L’attrezzatura è là, ma tu non te ne servi. La temperatura del tuo corpo è di ventinove gradi, e quanto al polso, non sono stato in grado di misurarlo. Quando ho cercato di praticarti delle iniezioni intravenose per nutrirti, non sono riuscito a trovare neanche una vena giusta, perciò ho dovuto infilarti il cibo nella bocca. Ma non so neppure se tu ne avessi davvero bisogno. — Tornò verso di lei e la fissò direttamente negli occhi. — Tu non sei un essere umano. Sei il perfetto guscio di plastica di una splendida ragazza, che ricopre Dio solo sa che cosa. Sei umana solo all’occhio. E allora che cosa sei?

Con voce tranquilla, Glair rispose: — Sono un’osservatrice. Vengo da Dirna, un lontano pianeta di un altro sole. Sei contento di saperlo?

Lui reagì come se fosse stato trafitto da una lama. Fece un passo indietro, emettendo un leggero sibilo, ed indurendo i lineamenti per lo stupore. Sollevò rigidamente la mano portandosela al petto, e strofinandoselo come se provasse dolore. Poi le chiese, con voce metallica: — Vieni da un disco volante, vero?

— Voi chiamate così le nostre navi. Sì.

— Dillo! Tu vieni da un disco volante! Pronuncia tutta questa stupida frase!

— Io vengo da un disco volante — mormorò Glair, sentendosi sciocca nel dire quella cosa sciocca.

Il terrestre si allontanò di nuovo da lei. — Potrei andare giù in città e tenere un sermone al Culto del Contatto, adesso — disse con voce roca. — Potrei raccontare loro della bellissima donna proveniente da un disco volante che ho trovato nel deserto, di come l’ho portata a casa, e curata, e delle storie che lei mi ha raccontato sul suo lontano pianeta. Le solite fesserie da visionari, come tante altre. Solo che tu sei reale, no? Tutte queste non sono allucinazioni! Capisci che cosa sto dicendo?

— In buona parte.

— Tutto questo sta realmente succedendo?

— Sì — rispose Glair a bassa voce. — Vieni qui.

Lui si avvicinò. Glair protese la mano verso il ruvido, muscoloso pistone che era il suo braccio. Non aveva mai toccato prima la carne di un terrestre. Le sue dita affondarono, ma la carne solida resistette alla sua stretta.

— Toccami — gli disse.

Lei allontanò la coperta dal suo corpo e la gettò a terra. Il terrestre sbatté gli occhi come se fosse stato accecato da una luce improvvisa. Abbassando lo sguardo su se stessa, sulle colline e sulle valli di quel corpo che negli ultimi dieci anni le era divenuto ormai familiare, Glair scorse le leggere bende marroni che le ricoprivano le gambe dalla caviglia al ginocchio. L’uomo l’aveva curata bene, facendo affettuosamente tutto ciò che poteva per guarire i suoi arti spezzati.

Lui la toccò.

Con una timidezza che sembrava fuori luogo in un uomo dall’aria così matura, posò le mani sulle sue spalle e le fece scorrere lungo le braccia. Di sfuggita, e solo per un attimo, sfiorò le protuberanze elastiche dei suoi seni. Carezzò i lati del suo addome e le rigide colonne delle sue cosce. Aveva il fiato corto, ansimante, irregolare; le sue mani tremavano, e Glair sentì l’odore acre del suo sudore sovrapporsi a quello più gradevole della sua carne. Ormai si era impratichita nella tecnica del sorriso, ed il suo sorriso non ebbe cedimenti mentre le mani di lui le frugavano la carne. Alla fine l’uomo si ritrasse, raccolse la coperta e gliela mise di nuovo sopra.

— Sono reale, o sono un sogno? — gli chiese.

— Reale. La tua pelle è così morbida… così convincente.

— Gli osservatori devono assomigliare a dei terrestri. A volte dobbiamo mescolarci a voi. Non spesso. Ma quando succede, dobbiamo sembrare uguali a voi. C’è però sempre la possibilità che qualcuno di voi si avvicini un po’ troppo e scopra cosa c’è sotto la nostra pelle. Non abbiamo alcun modo di cambiare la nostra natura interna e di riprodurre la vostra.

— Dunque è vero? Esseri provenienti dallo spazio osservano la Terra dai… dai dischi volanti?

— Da molti anni. Osserviamo la terra da molto prima che tu nascessi. Da molto prima che io nascessi. Le prime pattuglie giunsero qui molte migliaia di anni fa’. Oggi facciamo osservazioni assai più accurate di un tempo.

Il terrestre si portò le mani sui fianchi con un movimento istintivo, meccanico. Aprì la bocca come per dire qualcosa, ma non ne uscì alcun suono.

Infine riuscì a dire: — Sai che cos’è il SOA? Lo Studio Oggetti Atmosferici?

Glair ne aveva sentito parlare. — È l’organizzazione fondata da voi terrestri americani. Per osservare gli osservatori, se si può dire così.

— Sì. Per osservare gli osservatori. Be’, io lavoro per il SOA. Il mio compito è quello di raccogliere ogni possibile informazione in merito a ciò che quegli idioti chiamano dischi volanti, e controllare se in esse c’è qualche fondamento di verità. Sono pagato tutti i mesi per dare la caccia agli alieni. Non capisci, io non posso tenerti qui! È mio dovere consegnarti al mio governo! Mio dovere, dannazione!

CAPITOLO OTTAVO

Per tutto il giorno Charley Estancia si era dedicato alle sue abituali occupazioni come se tutto fosse perfettamente normale. Si era svegliato all’alba, come sempre; nessuno riusciva a dormire a lungo nelle due stanze della casa di mattoni imbiancata a calce che ospitava i quattro adulti ed i cinque ragazzi della famiglia Estancia. Il pupo, Luis, cominciava a frignare al primo canto del gallo. Ciò provocava abitualmente una sequela di imprecazioni da parte di George, zio materno di Charley, un ubriacone che comunque aveva sempre il sonno agitato; Lupe, sorella di Charley, rispondeva di solito con altre imprecazioni, e così cominciava la mattinata. Tutti andavano avanti e indietro per la casa, insonnoliti e di pessimo umore. La nonna di Charley accendeva la cucina per le tortillas, sua madre si occupava del piccolo Luis, l’altro fratello di Charley, Ramon, accendeva il televisore e vi si piantava davanti, mentre suo padre si dileguava silenziosamente fuori finché non era pronta la colazione; sua sorella Rosita, infine, goffa e trasandata nella camicia da notte malridotta, si inginocchiava davanti all’altare e pregava con voce monotona, senza dubbio chiedendo perdono per i nuovi peccati, qualsiasi essi fossero, che la sera prima aveva aggiunto a quelli precedenti. Era sempre così ogni mattina, e Charley Estancia lo detestava. Gli sarebbe piaciuto poter vivere da solo, in modo da non dovere imbattersi nella malizia di Lupe, nella stupidità di Ramon, nei miagolii di Luis e nel corpo seminudo di Rosita, che dava spettacolo di sé in casa; in modo da non dover ascoltare gli striduli lamenti di sua madre e le repliche sottomesse e avvilenti, da fallito, di suo padre; in modo da non dover più essere vittima delle fantasie senili di sua nonna, sempre in attesa di un tempo in cui la vecchia religione sarebbe stata seguita di nuovo. L’esistenza in un museo vivente come quello non era piacevole. Charley detestava ogni cosa del villaggio: le sue strade polverose e non pavimentate, le sue tozze case di fango, la sua mescolanza di disordinate vecchie abitudini e di sgradevoli nuove usanze, e soprattutto le orde di turisti dalla faccia pallida che si facevano vivi ogni luglio ed agosto per osservare la gente di San Miguel come se si trattasse di animali in un giardino zoologico.

Ora, finalmente, Charley aveva qualcosa per distogliere la sua mente da tutti quei pensieri. C’era l’uomo delle stelle, Mirtin, dentro la grotta vicino all’arroyo.