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Nicol li aspettava al tavolo da dove si godeva una vista perfetta della finestra a tutta parete. Indossava una tuta nera attillata e una gran quantità di trasparenti sciarpe multicolori; per il resto il suo aspetto non era cambiato di molto da quando Miles l’aveva incontrata per la prima volta, tanti anni e tanti salti iperspaziali prima. Era ancora snella, aggraziata anche nel suo flottante, con pelle d’avorio e capelli d’ebano tagliati corti, e i suoi occhi danzavano ancora nello stesso modo. Lei ed Ekaterin si osservarono con grande interesse, e non ci volle molto perché si mettessero a chiacchierare vivacemente.

La conversazione spaziava liberamente su molti argomenti, mentre del cibo squisito arrivava in un flusso costante, portato dai camerieri efficienti e discreti. Musica, giardinaggio e tecniche di riciclaggio li condussero infine a discutere delle dinamiche demografiche della popolazione quad e delle metodologie, tecniche, economiche e politiche, impiegate nella moltiplicazione di habitat in quella collana vitale che si andava allungando nella fascia degli asteroidi del sistema. Solo le reminiscenze di vecchie battaglie, per tacito accordo, non entrarono mai nella conversazione.

Quando Bel accompagnò Ekaterin alla toilette fra l’ultima portata e il dessert, Nicol aspettò che fossero abbastanza lontani, poi si chinò e mormorò a Miles: — Sono contenta per lei, ammiraglio Naismith.

Miles si portò brevemente un dito alle labbra. — Sia contenta per Miles Vorkosigan. Io di certo lo sono. — Esitò, poi chiese: — Dovrei essere altrettanto lieto per Bel?

Il sorriso della quad si smorzò. — Questo solo Bel può dirlo. Io ormai ho viaggiato abbastanza. Ho trovato il mio posto, alla fine, qui a casa. Anche Bel sembra star bene qui, per lo più, ma… be’, Bel è un terricolo. E tutti mi dicono che prima o poi gli pruderanno i piedi dalla voglia di tornare a terra. Lui dice di voler diventare un cittadino dell’Unione, ma… per un motivo o per l’altro, non ha ancora fatto domanda.

— Sono sicuro che lo vorrebbe — la rassicurò Miles.

Nicol scrollò le spalle, e finì la sua bibita al limone; doveva suonare, perciò aveva rinunciato al vino. — Forse il segreto della felicità è vivere per l’oggi e non pensare al futuro. Forse Bel non la pensa così, abituato com’è sempre stato a vivere nel pericolo e ad affrontare costantemente i rischi. Non sono sicura che lui possa cambiare la sua natura, o quanto male gli possa fare tentare. Forse troppo.

— Mm… — fece Miles ricordando quello che gli aveva detto l’amico: Se decido di prendere la cittadinanza e fare il giuramento, voglio farlo onestamente. Non posso giurare il falso, o continuare a tenere il piede in due scarpe.

Neppure Nicol, a quanto pareva, sapeva quale fosse il secondo lavoro di Bel… e la sua seconda fonte di rischi. — Però avrebbe potuto trovare impiego come portomastro in molti luoghi. Invece ha viaggiato a lungo per arrivare proprio qui.

Il sorriso di Nicol si addolcì. — È vero. Lo sa che quando Bel è arrivato alla Stazione Graf aveva ancora quel dollaro betano che io gli avevo infilato in uno scomparto del portafoglio che gli avevo regalato sul Complesso Jackson?

Miles riuscì a non fare la domanda ovvia: Come puoi sapere che si tratta proprio dello stesso dollaro? Quelli betani, dopo tutto, erano tutti uguali. Ma se Bel le aveva detto che era quello, non sarebbe stato proprio Miles a metterlo in dubbio.

Dopo cena uscirono dal ristorante e andarono alla stazione della Linea a bolle, l’arteria di comunicazione recentemente modificata per collegare ogni posto di quel labirinto tridimensionale che era diventata la Stazione Graf. Nicol lasciò il suo flottante in una rastrelliera sulla banchina passeggeri, prima di salire sulla vettura che impiegò circa dieci minuti per portarli alla loro destinazione. Durante il viaggio, non appena entrati nella sezione senza gravità, Miles sentì lo stomaco rivoltarsi, e fu costretto a ingerire una pastiglia antinausea, che offrì discretamente anche a Ekaterin e Roic.

L’entrata dell’Auditorium Madame Minchenko non era né grande né imponente, era semplicemente uno dei tanti portelli stagni che si aprivano su diversi livelli della Stazione. Nicol salutò Bel con un bacio e scappò via.

I corridoi cilindrici non erano ancora affollati di spettatori; d’altro canto loro erano arrivati in anticipo, per dare a Nicol il tempo di cambiarsi, ma quando entrarono nell’auditorio Miles rimase stupefatto dalla grandiosità dell’ambiente.

Era una sfera immensa. Circa un terzo della sua superficie interna formava una finestra convessa, aperta sull’universo, fitto di stelle che si trovavano sul lato in ombra della Stazione. Ekaterin, anch’essa impressionata dalla maestosità del posto, gli strinse la mano bruscamente, mentre Roic emetteva un singulto. A Miles parve di essere entrato a nuoto in un enorme alveare d’argento e pietre preziose, perché tutte le pareti della sfera erano rivestite di celle esagonali. Mentre fluttuavano verso il centro dell’auditorium, capì che le celle in realtà erano i palchi rivestiti di velluto. La loro dimensione variava da intime nicchie per una sola persona a spaziose unità per un pubblico numeroso. Miles cercò sulle prime di trovare una percezione di alto e basso, ma per quanto ammiccasse con gli occhi, non era mai sicuro se stesse guardando in su, in giù o di lato. Immaginare il basso era particolarmente inquietante, perché gli dava l’impressione di perdere l’equilibrio.

Dopo un congruo intervallo durante il quale erano rimasti a bocca aperta a osservare quello spettacolo grandioso, una maschera quad con una cintura a getti d’aria li prese in consegna e li accompagnò verso l’esagono che era stato loro assegnato. L’interno era rivestito di un materiale soffice, che assorbiva il rumore, e con comode maniglie; c’erano anche delle lampade, quelle che aveva scambiato per pietre preziose, vedendole da lontano.

Una sagoma scura e un movimento nell’ampio palco che li attendeva divenne, al loro avvicinarsi, una quad. Era snella, con lunghi arti, sottili capelli biondo-cenere che le si aprivano ad aureola attorno al capo. A Miles ricordò una sirena di quelle capaci di indurre gli uomini a battersi in duello, o a comporre poesie, o ad affogare nel vino il dispiacere di un rifiuto. O, peggio ancora, a disertare la loro brigata.

Indossava un elegante abito di velluto nero, con uno sbuffo di pizzo bianco sulla gola. La manica sull’avambraccio destro era slacciata, per lasciare spazio a un immobilizzatore medico ad aria che per Miles era dolorosamente familiare dai tempi della sua fanciullezza tormentata da ossa fragili. Era l’unica cosa in lei che appariva stonata.

Non era possibile confonderla con nessun’altra che non fosse Garnet Cinque. Miles aspettò comunque che Bel li presentasse come si doveva, cosa che l’ermafrodita fece subito. Si strinsero le mani; Garnet aveva una stretta forte, da atleta.

— Vorrei ringraziarla per avere trovato queste… — non si poteva certo parlare di poltrone — questi posti per noi, con così poco preavviso — disse Miles, lasciando andare la sottile mano superiore della donna. — Da quanto ho capito, avremo il privilegio di assistere a un lavoro di grande qualità. — Lavoro era una parola che evocava significati speciali nello Spazio Quad, un po’ come onore su Barrayar.

— Il piacere è mio, Lord Vorkosigan. — Aveva una voce melodiosa: la sua espressione sembrava controllata, quasi ironica, nei suoi occhi verdi c’era un pizzico di angoscia.

Miles indicò con una mano il suo braccio inferiore lesionato. — Mi permetta di porgerle di persona le mie scuse per il deplorevole comportamento di alcuni dei nostri uomini. Non appena ci saranno riconsegnati, verranno puniti severamente per quello che hanno fatto. La prego, non ci giudichi sulla base della peggiore gioventù di Barrayar. — Be’, non potrebbe: i peggiori non li mandiamo in giro sulle nostre astronavi, grazie a Gregor.