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George le strinse ancora il braccio. — Andrà bene — disse.

Era facile arrivarci; la funicolare faceva capolinea dall’altra parte del fiume, nel vecchio Lloyd Center, uno dei più grandi centri d’acquisto del mondo, prima del Crollo. Oggi i grandi parcheggi a più piani avevano fatto la fine dei dinosauri, e molti dei negozi che fiancheggiavano il corso erano vuoti, sfitti. La pista per pattinaggio su ghiaccio era chiusa da vent’anni, e nelle strane, romantiche fontanelle di ghisa non scorreva acqua. Gli alberelli piantati a scopo ornamentale erano cresciuti rigogliosamente; le loro radici avevano incrinato il marciapiede per vari metri intorno ai pozzetti cilindrici. Il suono di voci e di passi risaltava vuoto e chiaro, davanti e dietro, mentre percorrevano quei lunghi porticati illuminati insufficientemente, a metà abbandonati.

Rudy Loo era sul terrazzino superiore. Le fronde di un ippocastano nascondevano buona parte della vetrina. In alto, il cielo aveva un colore verde intenso e delicato: il colore che si può scorgere brevemente nelle sere di primavera, quando c’è una schiarita dopo la pioggia. Heather alzò lo sguardo verso quel paradiso di giada, remoto, improbabile, sereno; il suo cuore s’innalzò, sentì che l’ansia cominciava a staccarsi da lei, come una pelle vecchia. Ma quella sensazione non durò. Ci fu uno strano rovesciamento, uno scivolamento. Qualcosa parve trattenerla, fermarla. Rallentò il passo e abbassò gli occhi dal cielo di giada ai portici davanti a lei, vuoti e oscuri. Quel posto le era diventato estraneo. — Lassù mi fa quasi paura — disse.

George scosse le spalle; ma il suo volto era teso, corrucciato.

Si era alzato un vento, troppo tiepido per l’aprile dei vecchi giorni; un vento umido e caldo che agitava le grandi fronde dell’ippocastano, che faceva turbinare le cartacce negli androni deserti. La rossa insegna al neon dietro le fronde pareva offuscarsi e ondeggiare col vento, cambiare forma; la scritta non diceva più Ruby Loo’s, anzi pareva non dire più niente. Nulla diceva più niente. Nulla aveva più significato. Il vento soffiava vuoto nei vuoti porticati. Heather si staccò da George e si diresse al muro più vicino; piangeva. Nel dolore, il suo istinto la portò a nascondersi, a correre verso un angolo e a non farsi vedere.

— Cosa c’è, cara? … Non c’è niente. Resisti, andrà tutto bene.

Divento pazza, pensò lei; non era George, il pazzo; non lo è mai stato; ero io.

— Non succederà niente — le sussurrò ancora una volta, ma lei capì, dalla voce, che George parlava senza convinzione. Capì dalle mani che non lo credeva.

— Cosa c’è? — esclamò disperata. — Cosa succede?

— Non lo so — rispose lui, quasi automaticamente. Aveva alzato la testa e l’aveva scostata un po’ da lei, anche se continuava ad abbracciarla per fermare la crisi di pianto. George pareva guardare, osservare, ascoltare. Lei sentì che il cuore gli batteva più velocemente.

— Heather, ascolta. Devo tornare.

— Tornare dove? Cosa sta succedendo? — la sua voce era sottile e acuta.

— Da Haber. Devo andare. Adesso. Aspettami… nel ristorante. Aspettami. Non seguirmi. — Si allontanò. Ma lei doveva seguirlo. George percorse senza guardarsi indietro, rapidamente, le scale, le arcate, superò le fontanelle asciutte e giunse alla stazione della funicolare. Una cabina era in attesa: George vi saltò dentro. Anche lei vi salì, senza fiato, mentre cominciava a muoversi. — Che cacchio, George? …

— Mi spiace. — Anche lui era senza fiato. — Devo andare lassù. Non volevo coinvolgere anche te.

— Coinvolgere in cosa? — Lo detestò. Si sedettero l’uno di fronte all’altra, ansanti. — Cos’è questa improvvisa follia? Perché vuol tornare?

— Haber sta… — La gola di George si seccò per un istante. — Sta sognando — disse. Un profondo terrore irragionevole si impadronì di Heather; lo ignorò.

— Sognando cosa? E allora?

— Guarda dal finestrino.

Heather aveva guardato soltanto lui, mentre correvano e mentre erano nella cabina. In questo momento la funicolare stava attraversando il fiume, alta al di sopra del livello dell’acqua. Ma non c’era acqua. Il fiume era asciutto. Il suo letto, illuminato dalle luci dei ponti, era screpolato e pieno di rigagnoli, sporco, pieno di sudiciume e ossa e rottami e pesci morti. Le grandi navi giacevano riverse e in rovina accanto ai moli alti e fangosi.

Le costruzioni della zona centrale di Portland Capitale del Mondo, gli alti, nuovi, armoniosi cubi di vetro e di marmo inframmezzati da misurate dosi di verde, le fortezze del Governo… Ricerca e Applicazioni, Comunicazioni, Industria, Pianificazione Economica, Controllo Ambientale… si stavano sciogliendo. Diventavano molli e tremolanti, come gelatina al sole. Gli spigoli erano già scivolati giù per le facciate, formando grandi gocce cremose.

La funicolare andava molto in fretta e non si fermava alle stazioni: doveva essere successo qualcosa al cavo, si disse Heather, senza sentirsene direttamente interessata. Passarono rapidamente sopra la città in dissoluzione, ma abbastanza a lungo da udire crolli e urla.

Quando la cabina si innalzò, apparve Monte Hood, dietro le spalle di George. Vedendo sul volto, o forse sugli occhi, di Heather, che gli stava davanti, il riflesso della sua luce cupa, George si voltò subito a fissare il grande cono rovesciato di fuoco.

Il vagoncino oscillò nell’abisso, tra la città che si stava sformando e il cielo senza forma.

— Tutto va per storto, quest’oggi — disse una donna dal retro della vettura, con voce tremante.

La luce dell’eruzione era terribile e magnifica. Il suo vigore possente, materiale, geologico era rassicurante, a confronto con l’area vuota che adesso si stendeva davanti alla cabina, al capolinea del Parco.

Il presentimento che aveva colpito Heather quando aveva distolto gli occhi dal cielo di giada era adesso una presenza. Era laggiù. Era un’area, o forse un tempo, che conteneva una sorta di vuoto. Era la presenza dell’assenza: un’entità che non poteva venire espressa in nessun modo, né quantitativamente, né qualitativamente, e in cui ogni cosa precipitava, senza che nessuna ne venisse restituita. Era orribile, e non era nulla. Era il modo sbagliato: il modo in cui le cose non dovevano andare.

In tutto questo si tuffò George, quando la cabina della funicolare si arrestò alla fine della corsa. Mentre vi entrava si guardò alle spalle, dicendo: — Aspettami, Heather! Non seguirmi, non venire!

Ma anche se lei cercò di obbedirgli, la cosa la raggiunse. Si estendeva come da un centro, rapidamente. Heather scoprì che tutto era scomparso e che lei era perduta nel buio spaventoso, e gridava senza voce il nome del marito, desolatamente; infine si lasciò andare a terra, raggomitolata intorno al centro del proprio essere, e cadde per sempre nell’abisso riarso.

Per pura forza di volontà, che riesce a essere davvero grande quando è esercitata nel modo giusto al momento giusto, George Orr si scoprì sotto i piedi i gradini di marmo che portavano alla torre del SURA. Avanzò, mentre i suoi occhi lo informavano che camminava sulla nebbia, sul fango, su cadaveri sfatti, su innumerevoli forme putride. Faceva molto freddo, eppure c’era puzzo di metallo rovente e di carne e pelo bruciati. Attraversò l’atrio; le lettere dorate dell’aforisma della cupola balzarono su di lui, UOMO U MO A A A. Le «A» cercarono di farlo inciampare. Salì su un nastro trasportatore, anche se non lo vedeva; passò su una scala mobile che lo fece salire verso il nulla, e che doveva essere sorretta costantemente dalla fermezza della sua volontà. Non chiuse neppure gli occhi.

Su, all’ultimo piano, il pavimento era di ghiaccio. Era spesso circa un dito, e trasparente. Al di sotto si vedevano le stelle dell’emisfero meridionale. Orr vi mise il piede sopra, e tutte le stelle emisero un suono forte e falso, come campane rotte. Il puzzo era molto intenso, e lo faceva soffocare. Andò avanti, tendendo le mani. Davanti a lui c’era la prima porta degli uffici di Haber: non poteva vederla, ma sentì il suo contatto. Un lupo ululò. La lava avanzò verso la città.