Il cartello da lei cercato era quasi invisibile in mezzo ai rami più bassi, che inghiottivano senza fatica la debole luce dei fanali dell’auto. Fece retromarcia e progredì lentamente, per un paio di chilometri, su solchi e gibbosità, finché vide la prima costruzione: un tetto di legno illuminato dal chiarore lunare. Erano passate da poco le otto.
Intorno ad ogni villino c’era un piccolo spiazzo di dieci, quindici metri di lato; era stato sacrificato un numero ridottissimo di alberi, ma avevano tagliato il sottobosco; una volta capita la disposizione, Heather riuscì facilmente a vedere i tetti illuminati, e, dall’altra parte del ruscello, una seconda fila di villini. Soltanto una delle finestre era illuminata. Una sera di martedì, all’inizio della primavera: non poteva esserci molta gente in vacanza. Quando aprì la portiera dell’auto fu sorpresa nel sentire quanto fosse rumoroso il ruscello: un ruggito salubre e ininterrotto. Raggiunse la costruzione illuminata, inciampando non più di due volte nel buio, e diede un’occhiata all’auto parcheggiata davanti: una macchina a noleggio della Hertz, a batteria. Naturalmente. Ma, se non era lui? Poteva essere un estraneo. Oh, cacca!, non ti mangiano mica. Bussò alla porta.
Dopo un poco, mormorando a bocca chiusa un’imprecazione, bussò di nuovo.
Il ruscello gridava forte, ma la foresta non si degnava di rispondergli.
Orr aprì la porta. Aveva i capelli ricci e arruffati, gli occhi rossi, le labbra secche. La fissò battendo le palpebre. Aveva un aspetto spregevole e disordinato. Le faceva quasi paura. — Sta male? — gli chiese lei, brusca.
— No, io… Venga dentro…
Non poté rifiutare. Vide che c’era un attizzatoio per la stufa: eventualmente si sarebbe potuta difendere con quello. Naturalmente, però, anche lui avrebbe potuto servirsene per aggredirla, se ci fosse arrivato per primo.
Oh, Cristo, a momenti era più robusta di lui, ed era molto più in forma. Codarda codarda. — Ha preso qualche stupefacente?
— No, io…
— Lei cosa? Cos’ha?
— Non posso dormire.
La piccola abitazione aveva un odore simpaticissimo di fumo e di legno. L’arredamento era costituito da una stufa con superficie di cottura a due posti, una scatola piena di rami secchi, uno stipetto, una tavola, una sedia, una brandina residuato militare. — Si sieda — fece Heather. — Ha un aspetto spaventoso. Vuole qualcosa da bere, vuole che le chiami un dottore? Ho del brandy in macchina. Le consiglio di venire con me a Lincoln City da un medico.
— No, non ho niente. Ho soltanto… — (sbadiglio sbadiglio) — sonno.
— Ha detto che non poteva dormire.
La fissò con occhi rossi e appannati. — Non posso dormire. Ho paura.
— Oh, Cristo. Da quant’è che va avanti?
(Sbadiglio sbadiglio) — Domenica.
— Non dorme da domenica?
— O da sabato? — fece lui, perplesso.
— Ha preso qualcosa? Uno stimolante?
Lui scosse la testa. — Un po’ ho dormito — disse molto chiaramente, poi parve cadere addormentato per un istante, come un uomo di novant’anni. Ma mentre lei, incredula, lo guardava, si svegliò di nuovo e disse in tono lucido: — È venuta qui a cercarmi?
— E che altro vuole che sia venuta a fare? A tagliarmi un albero di Natale, per l’amor di Dio? Lei mi ha fatto un bidone ieri a mezzogiorno, a colazione.
— Oh. — Rimase a occhi aperti: evidentemente cercava di metterla a fuoco. — Mi spiace — disse, — non avevo la testa a posto.
Dicendo queste parole, tornò a essere se stesso, nonostante gli occhi rossi e spiritati, i capelli in disordine: un uomo la cui dignità era così profonda da risultare pressoché invisibile.
— Va bene. Non importa! Ma lei sta saltando la Terapia… no?
Lui annui. — Vuole un po’ di caffè? — chiese. Era qualcosa di più che dignità. Coerenza? Integrità? Come un pezzo di legno non scolpito. La possibilità infinita, l’illimitata e incondizionata totalità di essere del non-impegnato, del non-agente, del non-scolpito: l’essere che, non essendo altro che se stesso, è ogni cosa.
Improvvisamente lo vide così, e, di quella visione, ciò che la colpì maggiormente fu la sua forza. Era la persona più forte che avesse mai conosciuto, perché non poteva essere spostato dal centro. E per questo le piaceva. Si sentiva attirata dalla forza, si dirigeva alla forza come una falena alla luce. Aveva avuto molto amore, da bambina, ma accanto a lei non c’era mai stata forza, non c’era stato nessuno a cui appoggiarsi: la gente si era sempre appoggiata a lei. Da trent’anni aspettava d’incontrare qualcuno che non si appoggiasse a lei, che non si sarebbe mai appoggiato, che non poteva farlo…
Lì davanti a lei: piccolo, con gli occhi rossi, psicotico, fuggitivo… ecco lì la sua torre incrollabile.
La vita è un pasticcio incomprensibile, pensò Heather. Non sai mai cosa sta per succederti. Si tolse l’impermeabile, mentre Orr prendeva una tazza dallo stipetto e il latte in polvere dallo scaffale. Le portò una tazza di caffè da svegliare un morto: 97 per cento caffeina, 3 per cento sostanze inerti.
— Lei non ne prende?
— Ne ho già preso troppo. Mi dà i bruciori di stomaco.
Provò una forte simpatia per lui.
— Che ne direbbe di un po’ di brandy?
Parve molto interessato alla proposta.
— Non la farà dormire. La tirerà un po’ su. Vado a prenderlo.
Lui la accompagnò fino all’auto, con la lampada portatile. Il ruscello urlava, gli alberi rimanevano silenziosi, la luna brillava dall’alto; la luna degli Alieni.
Tornati in casa, Orr si versò un dito di brandy e lo assaggiò. Rabbrividì tutto. — Buono — disse, e mandò giù il resto.
Lei lo adocchiò con una smorfia di approvazione. — Ne porto sempre una bottiglietta da mezzo litro — disse. — L’avevo messa nel ripiano del cruscotto: se la polizia mi fermava e mi chiedeva la patente era un po’ compromettente, tenerla nella borsetta. Ma di solito l’ho in borsa. Strano come si renda utile quel paio di volte all’anno.
— Per questo ha sempre una borsa così grossa — disse Orr, con voce leggermente alticcia.
— Esattamente! Anzi, ne metto un po’ nel caffè. Tanto per renderlo un po’ più leggero. — Contemporaneamente se ne versò un secondo bicchiere. — Come ha fatto a rimanere sveglio per settanta ore di fila?
— Non sono rimasto sveglio per tutto il tempo. Mi sono limitato a non sdraiarmi. Si può dormire, seduti; ma non si fanno dei sogni. Per entrare nel sonno onirico bisogna essere sdraiati, perché i grossi fasci muscolari devono rilassarsi. L’ho letto su un libro. La cosa funziona abbastanza bene. Finora non ho ancora fatto un sogno vero e proprio. Ma il fatto di non potermi rilassare mi sveglia di nuovo. E alla fine ho avuto una sorta di allucinazioni. Robe che strisciano sulla parete.
— Lei non può continuare in questo modo!
— No. Lo so. Ma dovevo fuggire. Da Haber. — Pausa. Pareva essere ricaduto nella sonnolenza. Rise in maniera abbastanza sciocca. — L’unica soluzione che vedo realmente — disse, — è quella di uccidermi. Ma non voglio farlo. Non mi pare giusto, ecco.
— Certo, che non è giusto!
— Ma in un modo o nell’altro devo fermarlo. Devo fermarmi.
Lei non lo seguiva, e non voleva seguirlo. — Qui è un bel posto — disse. — Non sentivo l’odore del fumo da vent’anni.
— Inquina l’aria — disse lui, con un debole sorriso. Pareva quasi «partito» ; ma sedeva sulla branda con la schiena dritta, senza neppure appoggiarsi contro la parete. Batté gli occhi varie volte. — Quando lei ha bussato — disse, — pensavo che fosse un sogno. Ecco perché ci ho… — (sbadiglio sbadiglio) — messo tanto a venire.
— Lei ha detto di essersi sognato questo villino. Piuttosto modesto, come sogno. Perché non si è preso uno chalet sulla spiaggia di Saliahan, o un castello sul Capo Perpetua?
Lui scosse il capo, aggrottato. — Mi bastava. — Dopo avere battuto varie volte le palpebre, disse: — Quello che è successo. Quello che le è successo. Venerdì. Nell’ufficio di Haber. La seduta.