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Rimuginò quest’idea per qualche tempo. Le girò tutt’intorno; provò a sollevarla e scoprì che era pesantissima.

Pensò: Haber sa, ora, che la fotografia è cambiata due volte. Perché non mi ha detto nulla? Sa che ho paura di essere pazzo. Afferma di volermi aiutare. Mi sarebbe stato molto utile sapere che anche lui vede quello che vedo io, sapere che non si tratta di una mia illusione.

Ed ora saprà anche, pensò ancora, dopo una lunga sorsata di birra, che ha smesso di piovere. Però non è andato a vedere, quando gliel’ho detto. Forse aveva paura di scoprirlo. Probabilmente. Questa cosa lo allarma; forse desidera conoscerla meglio, prima di pronunciarsi. Be’, non gli so dare torto. Sarebbe davvero strano che la cosa non lo allarmasse.

Però, una volta che si sia assuefatto all’idea, mi chiedo cosa farà… Chissà come riuscirà a fermare i miei sogni, a impedirmi di cambiare la realtà. E io devo assolutamente fermarli; quel che è successo è già abbastanza, è già più che sufficiente…

Scosse il capo e voltò le spalle al panorama brulicante di luci e di vita.

CAPITOLO QUARTO

Nulla dura in eterno, nulla è preciso e certo (salvo che nella mente dei pedanti), la perfezione è semplicemente il ripudio di quell’ineluttabile margine d’inesattezza che è la misteriosa qualità interiore dell’Essere.

H.G. Wells, A Modem Utopia

L’ufficio dei legali Forman, Esserbeck, Goodhue e Rutt era in un ex parcheggio automobilistico del 1973, convertito all’uso umano. Molti vecchi edifici del centro di Portland ne condividevano il lignaggio. Un tempo, infatti, la maggior parte della zona centrale di Portland era costituita di aree per il parcheggio delle automobili. Dapprima si era cominciato con spianate di asfalto interrotte regolarmente dalle cabine del pedaggio o dai parchimetri, ma con il crescere del livello di popolazione era cresciuto anche il livello dei parcheggi. Proprio lì, a Portland, era stato inventato il parcheggio automatico a più piani, molti anni addietro; e prima che le auto private morissero soffocate dai propri miasmi di scarico, gli edifici per parcheggio a rampa elicoidale avevano raggiunto altezze di quindici, venti piani. Non tutte queste costruzioni erano state demolite dopo gli anni ’80 per far posto a grattacieli commerciali o residenziali; alcune erano state convertite. E in questa, al 209 del S.W. Burnside, aleggiava ancora l’odore di spettrali vapori di benzina. I suoi pavimenti di cemento erano macchiati dai rigurgiti di innumerevoli motori; orme di battistrada di dinosauri erano fossilizzate nella polvere dei suoi echeggianti corridoi. Tutti i pavimenti avevano una piega peculiare, un’asimmetria legata alla fondamentale struttura elicoidale dell’edificio; negli uffici degli avvocati Forman, Esserbeck, Goodhue e Rutt non si era mai completamente sicuri di stare in piedi nel giusto modo.

Miss Lelache era seduta dietro il paravento di scaffali e di dossier che semi-separava la sua metà ufficio da quella di Mr. Pearl, e pensava a se stessa come alla Vedova Nera.

Eccola lì seduta, velenosa; dura, lucida, mortale, che attendeva e attendeva.

E la vittima giunse.

Una vittima nata. Capelli simili a quelli di una bambina, chiari e fini; barbetta bionda; pelle soffice e bianca come la pancia di un pesce; un tizio mite e blando, che incespicava sulle parole. Oh, cacca! A calpestarlo, un tizio mollo come quello, non avrebbe fatto neppure crac…

— Ecco, sa, io, mi pare che sia, penso che sia una questione, una faccenda di invasione della sfera privata, all’incirca — stava dicendo. — I miei diritti alla privacy. Ma non ne ho la certezza. Per questo vorrei il parere di un avvocato.

— D’accordo. Spari fuori — disse Miss Lelache.

Ma la vittima non riuscì a sparare. Doveva esserglisi seccata quella cannetta balbuziente che chiamava gola.

— Lei è in Trattamento Terapeutico Volontario — disse allora Miss Lelache, basandosi sul messaggio lasciatole da Mr. Esserbeck, — per contravvenzione ai regolamenti federali sulla distribuzione dei medicinali mediante le farmacie automatiche.

— Sì. Sottoponendomi al trattamento psichiatrico evito il tribunale.

— Il succo è questo — disse l’avvocatessa, in tono asciutto. Quel tizio non pareva un deficiente: pareva soltanto un disgustoso sempliciotto. Si schiarì la gola.

Anche il tizio si schiarì la gola. Scimmia vede, scimmia fa.

Pian piano, tra infinite precisazioni e aggiunte di particolari, il tizio spiegò che la terapia era costituita essenzialmente di sonno e di sogno indotti mediante ipnosi. E il tizio aveva l’impressione che lo psichiatra, ordinandogli di fare certi sogni, violasse i suoi diritti alla privacy, stabiliti nel 1984 dalla Nuova Costituzione degli Stati Uniti.

— Be’, qualcosa di simile è saltato fuori lo scorso anno in Arizona — fece Miss Lelache. — Un tale in Trattamento Volontario ha sporto denuncia contro il suo terapeuta, dicendo che instillava in lui tendenze omosessuali. Lo psichiatra, naturalmente, si limitava a usare le tecniche standard del condizionamento, e il querelante non era altro, in realtà, che un omosessuale con una spaventosa repressione; venne arrestato per tentato stupro ai danni di un dodicenne, in pieno giorno e nel bel mezzo del parco di Phoenix, ancor prima che la causa giungesse in tribunale. Finì a Tehachapi, in Terapia Obbligatoria. Ecco. Questo per dirle che occorre andare coi piedi di piombo quando si tratta di accuse come questa. La maggior parte degli psichiatri convenzionati per curare i pazienti governativi si muovono già loro per primi con i piedi di piombo; sono dei professionisti rispettabilissimi. Ora, se lei potesse fornire qualche esempio, qualche fatto, potremmo usarli come prove davanti al giudice; ma un semplice sospetto non è sufficiente. Anzi, potrebbe farla finire alla Terapia Obbligatoria, cioè all’Ospedale Psichiatrico Linnton, oppure in prigione.

— Ma non potrebbero… chissà, basterebbe che mi assegnassero a un altro psichiatra.

— Be’. Occorrerebbe un motivo fondato. La Clinica Universitaria l’ha assegnata al dottor Haber; e laggiù alla Clinica sanno il fatto loro. Se lei querelasse Haber, le persone chiamate a consulto come esperti sarebbero, molto probabilmente, i professori della Clinica, forse proprio gli stessi che l’hanno già visitata. Ed è poco probabile che tengano le parti di un paziente contro un medico, senza prove. Almeno, non in un caso come questo.

— Un caso di malattia mentale — disse tristemente il cliente.

— Esatto.

Per un po’, l’uomo non disse nulla. Infine rialzò gli occhi: occhi chiari, limpidi, che guardavano senza ira e senza speranza. Sorrise e disse: — La ringrazio moltissimo, Miss Lelache. Mi spiace di averle fatto perdere del tempo.

— Be’, aspetti! — esclamò lei. Forse era un sempliciotto, ma certamente non pareva pazzo; non pareva neppure nevrotico. Aveva soltanto un’aria disperata. — Lei non deve mollare così facilmente. Non le ho mica detto che non ha speranze! Dice di volersi liberare dall’assuefazione ai farmaci, e quel dottor Haber le sta somministrando una quantità di fenobarbiturici superiore a quella che prendeva prima; è una direzione che potremmo esplorare. Ma ne dubito. La difesa della privacy è la mia specializzazione, e anch’io desidero controllare se c’è stata un’invasione della sua sfera privata. Volevo dire soltanto che non mi pareva ancora di avere trovato qualcosa, sempre che ci sia. Che cosa, in particolare, le ha fatto questo medico?

— Se glielo dicessi — fece il cliente, in tono distaccato, ma dolente, — lei direbbe che sono pazzo.

— E come fa a saperlo?

Miss Lelache era abilissima nel rispondere a una domanda con un’altra domanda, qualità assai pregevole in un avvocato, ma questa volta si accorse di avere esagerato.