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Dopo aver deglutito, mi decisi a domandare: — Ma chi è? Che cos'è?

— E perché vuoi saperlo? — chiese il Capo, fissando gli occhi della civetta.

— Per decidere se voglio lavorare con lui!

La civetta mi guardò e cominciò a sibilare come un gatto infuriato.

— La domanda è posta male. — Il Capo scosse la testa. — Se acconsentirà lei a lavorare con te, ecco qual è la domanda.

La civetta ricominciò a stridere.

— Sì — disse il Capo, rivolgendosi all'uccello. — Per molti versi hai ragione, ma chi è stato a chiedere un nuovo appello?

L'uccello si placò.

— Prometto che intercederò. E questa volta ci sono delle possibilità.

— Boris Ignat'evič, la mia opinione è che… — attaccai.

— Scusami, Anton, ma la tua opinione non mi interessa… — Il Capo tese la mano, la civetta spostò maldestramente le zampe piumate e si sistemò sul palmo. — Tu non comprendi la tua fortuna.

Tacqui. Il Capo si avvicinò alla finestra, la spalancò e tese la mano. La civetta frullò le ali e volò giù in basso. E bravo l'uccello imbalsamato!

— Ma… dove…?

— Da te. Lavorerete in coppia… — Il Capo si grattò la radice del naso. — Già! Ricordati che si chiama Ol'ga.

— La civetta?

— Sì, la civetta. Le darai da mangiare, l'accudirai e tutto andrà bene. Ma ora… dormi ancora un po' e poi alzati. Dall'ufficio puoi anche non passare, aspetta Ol'ga e mettiti al lavoro. Controlla la linea circolare del metrò, per esempio…

— Come faccio a dormire… — cominciai. Ma il mondo tutt'intorno si offuscò, sbiadì e si dissolse. L'angolo del guanciale mi si era conficcato dolorosamente nella guancia.

Ero sdraiato nel mio letto.

Mi sentivo la testa pesante e gli occhi come fossero pieni di sabbia. La gola era secca e doleva.

— Ah… — mandai un gemito rauco, girandomi sulla schiena. I tendoni pesanti mi impedivano di capire se fosse ancora notte o giorno fatto. Guardai di sbieco l'orologio: le lancette luminose indicavano le otto.

Era la prima volta che avevo ottenuto udienza dal Capo in sogno.

Si trattava di un fatto sgradevole, in primo luogo per il Capo, cui era toccato irrompere nella mia coscienza.

Doveva proprio mancargli il tempo, se era stato costretto a continuare il mio addestramento nel mondo dei sogni. Ma era andata così… Che realtà! Non me l'aspettavo. La scelta dell'incarico, questa civetta idiota…

Sussultai: dall'esterno bussavano al vetro. In modo impercettibile ma insistente, con un rumore come di unghie. Giungevano delle strida soffocate.

Cosa aspettavo ancora?

Balzai in piedi, mi sistemai alla bell'e meglio le mutande e corsi alla finestra.

Uno scatto. Scostai le tende. Alzai le persiane.

La civetta era posata sul davanzale. Strizzava un poco gli occhi: dopotutto era l'alba e per lei c'era troppa luce. Dalla strada era difficile capire cosa fosse quell'uccello che si era posato sul davanzale del decimo piano. Ma se solo i vicini avessero dato un'occhiata fuori, sarebbero rimasti sbalorditi. Una civetta delle nevi nel centro di Mosca!

— Ma che diavolo è… — dissi piano.

Avrei voluto esprimermi in modo più colorito, ma mi avevano disabituato fin dall'inizio del mio impiego nella Guardia. O meglio: ero stato io a disabituarmi. Quando cominci a vedere una o due volte un vortice malefico sopra una persona contro cui hai imprecato, subito ti abitui a tenere a freno la lingua.

La civetta mi fissava. Attendeva.

E intorno strepitavano altri uccelli. Uno stormo di passeri, che si era posato su un albero poco distante, si abbandonava ad assordanti cinguettii. Le cornacchie erano più ardite: si erano posate sul balcone dei vicini, sugli alberi più prossimi. E gracchiavano, senza sosta, saltando di tanto in tanto giù dai rami e mulinando davanti alla finestra. L'istinto le avvertiva delle disgrazie che incombevano da quel vicino inatteso.

Ma la civetta non reagiva.

Avrebbe sputato sia sui passeri sia sulle cornacchie. Se solo avesse potuto, s'intende.

— Ma tu chi sei allora? — borbottai, aprendo la finestra e staccando le cornici incollate. Aveva reso un bel servizio il Capo al suo socio… alla sua socia…

Con un solo battito di ali la civetta entrò nella stanza, si posò sull'armadio guardaroba e socchiuse gli occhi. Era come se vivesse là da un secolo. Si era forse congelata lungo il tragitto? Ma no, era una civetta delle nevi…

Richiusi la finestra, riflettendo sul da farsi. Come sarei riuscito a comunicare con lei, a nutrirla, e come poteva, di grazia, questo pennuto essermi d'aiuto?

— Ti chiami Ol'ga? — chiesi, dopo aver concluso con la finestra. Dalle fessure filtrava aria, ma di questo ci saremmo occupati poi. — Ehi, uccello!

La civetta aprì un occhio. Mi ignorava, quasi quanto gli indaffarati passerotti.

A ogni istante mi sentivo sempre più a disagio. In primo luogo si trattava di un socio con cui era impossibile comunicare. E poi anche di una femmina!

Sia pure una civetta.

E se mi fossi infilato i pantaloni? Stavo lì con addosso solo le mutande sgualcite, con la barba lunga, insonnolito…

Sentendomi l'ultimo degli idioti, afferrai dei vestiti e uscii dalla stanza. La frase da me lanciata alla civetta mentre me ne andavo: «Mi scusi, torno tra un minuto» suonava come degno completamento di tutto l'insieme.

Se quest'uccellino era davvero ciò che pensavo, non dovevo avergli fatto la migliore delle impressioni.

Ciò che desideravo di più era farmi una doccia, ma non potevo permettermi di perdere così tanto tempo. Mi limitai a radermi e a infilare la testa che mi ronzava sotto il rubinetto dell'acqua fredda. Sulla mensola, tra lo shampoo e il deodorante, c'era anche dell'acqua di Colonia che di solito non usavo.

— Ol'ga? — chiamai, guardando nel corridoio.

La civetta era in cucina, sul frigorifero. Sembrava morta, era come un uccello imbalsamato, sistemato lì per divertimento. Quasi come sullo scaffale del Capo.

— Sei viva? — le chiesi.

Un occhio giallo ambra mi fissò tetro.

— D'accordo. — Allargai le braccia. — Ricominciamo dall'inizio, vuoi? So di non averti fatto la migliore delle impressioni. E ti dico francamente che per me è un fatto cronico.

La civetta ascoltava.

— Non so chi tu sia. — Dopo essermi accomodato sullo sgabello, mi sistemai davanti al frigorifero. — E non puoi neppure raccontarmelo… ma posso immaginarlo. Mi chiamo Anton. Cinque anni fa si scoprì che ero un Altro.

Il suono che mandò la civetta era simile a una risatina soffocata.

— Già — confermai. — Proprio cinque anni fa. È andata così. La mia barriera di separazione era molto elevata. Non volevo vedere il mondo del Crepuscolo. E non lo vedevo. Finché non fu il Capo a imbattersi in me.

Sembrava che per la civetta la cosa si facesse interessante.

— Lui si occupava dell'addestramento pratico. Addestrava gli operativi a scoprire i potenziali Altri occulti. E si imbatté in me… — Sogghignai, ripensandoci. — E naturalmente infranse la mia barriera. Poi tutto fu semplice… Frequentai il corso di adattamento e cominciai a lavorare nella sezione analitica… Così, senza troppi cambiamenti nella mia vita, diventai un Altro, quasi senza accorgermene. Il Capo non era contento, ma taceva. Il lavoro lo facevo bene… e lui non ha il diritto di immischiarsi nel resto. Ma una settimana fa è comparso un vampiro-maniaco. E io ho avuto l'incarico di neutralizzarlo. Forse perché tutti gli operativi erano occupati. In effetti perché scoprissi cos'è la guerra, e forse questo è giusto. E poi in una settimana sono morte tre persone. Un professionista avrebbe catturato quella coppietta nell'arco di ventiquattr'ore…

Mi sarebbe piaciuto davvero sapere che cosa pensava Ol'ga. Ma la civetta non emetteva alcun suono.

— Qual è la cosa più importante per mantenere l'equilibrio? — chiesi tuttavia. — Una promozione nella mia qualifica operativa o la vita di tre persone del tutto innocenti?