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Sapevo dell'esistenza di droghe capaci di ridurre, o virtualmente eliminare, la fase di potenza del ciclo sessuale getheniano; venivano usate quando la convenienza, la medicina, o la morale imponevano l'astinenza. Un kemmer, o diversi, potevano venire saltati senza effetti negativi. L'uso volontario di simili droghe era comune e accettato. Non avevo mai pensato, però, che queste droghe potessero venire somministrate a persone che non volevano farne uso.

C'erano dei buoni motivi. Un prigioniero in kemmer sarebbe stato un elemento perturbatore nella sua squadra di lavoro. Se fosse stato dispensato dal lavoro, che cosa si sarebbe dovuto fare di lui?… specialmente se nessun altro prigioniero era in kemmer, in quel momento, com'era possibile, essendoci nella fattoria soltanto centocinquanta prigionieri. Per un getheniano, è assai difficile attraversare il kemmer senza un compagno; meglio, allora, semplicemente ovviare all'infelicità e al tempo di lavoro perduto, e non entrare affatto in kemmer. Così loro lo evitavano.

I prigionieri che si trovavano là da diversi anni erano, psicologicamente, e — credo — entro certi limiti anche fisicamente adattati a questa castrazione chimica. Erano asessuati come buoi. Erano senza vergogna e senza desiderio, come gli angeli. Ma non è umano essere senza vergogna e senza desiderio.

Essendo così strettamente definito e limitato per natura, l'impulso sessuale dei getheniani non è in realtà molto influenzato dalla società, che non interferisce in misura sensibile: esistono codificazioni minori, repressioni e limitazioni del sesso inferiori a quelle esistenti in qualsiasi società bisessuata della quale si conosca l'esistenza. L'astinenza sessuale è completamente volontaria; l'indulgenza è del tutto accettabile. La paura e la frustrazione sessuali sono entrambe estremamente rare. Questo era il primo caso che io avessi visto, dello scopo sociale che si muoveva in senso contrario all'impulso sessuale. Trattandosi di una soppressione, non semplicemente di una repressione, questo produceva non una frustazione, ma qualcosa di più sinistro, forse, e di più minaccioso, a corso lungo: produceva passività.

Non esistono insetti comunitari, su Gethen. Gli abitanti d'Inverno non dividono la loro terra, con i terrestri, con quelle comunità più antiche, quelle innumerevoli società di minuscoli lavoratori asessuati in possesso soltanto dell'istinto di obbedienza al gruppo, all'intero. Se su Inverno fossero esistite delle formiche, i getheniani avrebbero potuto tentare di imitarle già da molto tempo. Il regime delle Fattorie Volontarie è relativamente sconosciuto altrove. Ma si tratta di un minaccioso segno della direzione che una società di persone così vulnerabili al controllo sessuale potrebbe assumere.

Alla Fattoria Pulefen eravamo, come ho detto, sottoalimentati per il lavoro che facevamo, e i nostri abiti, soprattutto le calzature, erano completamente inadeguati per quel clima rigido, invernale. Le guardie, la maggior parte delle quali erano solo prigionieri come noi, in periodo di riabilitazione (se posso adottare uno dei nostri termini) non erano in condizioni molto migliori delle nostre. L'intento del luogo e il suo regime erano punitivi, ma non distruttivi, e penso che sarebbero stati sopportabili, senza il drogaggio e gli esami.

Alcuni dei prigionieri venivano sottoposti agli esami in gruppi di dodici; si limitavano a recitare una specie di confessione e catechismo, ricevevano la loro iniezione anti-kemmer, e venivano subito rimessi al lavoro. Altri, i prigionieri politici, erano soggetti ogni cinque giorni a un interrogatorio, sotto l'effetto di droghe.

Non so quali droghe usassero. Non conosco il proposito degli interrogatori. Non ho idea di quali domande mi avessero fatto. Ritornavo in me nel dormitorio, dopo qualche ora, disteso sulla cuccetta insieme ad altri sei o sette prigionieri, alcuni tra i quali si stavano svegliando con me, alcuni altri ancora inerti e privi di sensi, nella stretta della droga. Quando eravamo di nuovo tutti in piedi, le guardie ci portavano fuori, allo stabilimento, per lavorare; ma dopo il terzo, o il quarto, di questi esami, io non riuscii più ad alzarmi. Mi lasciarono stare, e il giorno dopo potei uscire con la mia squadra, benché mi sentissi stanco, esausto, e tremante. Dopo l'esame successivo, rimasi impotente per due giorni. Evidentemente, o le droghe anti-kemmer, o i sieri della verità, avevano un effetto tossico sul mio sistema nervoso non getheniano, e l'effetto dava luogo a un'accumulazione.

Ricordo i miei progetti. Immaginavo di chiedere, la prossima volta, prima dell'esame, all'Ispettore di risparmiarmi. Avrei cominciato chiedendo di essere clemente. Poi avrei promesso di rispondere in modo veritiero a qualsiasi domanda egli mi avesse fatto, senza droghe; e più tardi gli avrei detto — Signore, non vedete quanto è inutile conoscere le risposte alle domande sbagliate? — Allora, nei miei pensieri sconnessi, l'Ispettore si trasformava in Faxe, con il collo circondato dalla catena d'oro del Profeta, e allora avevo una lunga conversazione con Faxe, molto piacevole, mentre controllavo il flusso di acido da un tubo in una vasca di segatura di legno. Naturalmente, quando arrivai nella stanzetta dove ci sottoponevano all'esame, l'aiutante dell'Ispettore mi aveva aperto il colletto e mi aveva fatto l'iniezione prima che io potessi parlare, e tutto quel che ricordo di quella seduta, o forse il ricordo viene da una precedente, è l'Ispettore, un giovane Orgota dall'aria stanca e con le unghie sporche, che mi diceva in tono minaccioso: — Tu devi rispondere alle mie domande in Orgota, tu non devi parlare nessun altro linguaggio. Devi parlare in Orgota.

Non c'era un'infermeria. Il principio della Fattoria era: lavorare o morire. Ma c'erano dei sollievi in pratica… zone franche tra la morte e il lavoro, offerte dalle guardie. Come ho detto, non erano crudeli; e neppure gentili. Erano pesanti e torpide e non se ne importavano molto, qualunque cosa accadesse, a patto che non si mettessero nei guai. Lasciarono restare nel dormitorio me e un altro prigioniero, semplicemente ci lasciarono là, nei nostri sacchi a pelo, come se ci avessero dimenticati, quando apparve chiaro che né io né l'altro eravamo in grado di reggerci in piedi. Dopo l'ultimo esame io ero in condizioni disastrose; l'altro, un individuo di mezza età, aveva qualche disturbo, o malattia del fegato, e stava morendo. Poiché non poteva morire d'un colpo, gli fu concesso d'impiegare un po' di tempo a farlo, sulla cuccetta.

Lo ricordo più chiaramente di qualsiasi altra cosa, nella Fattoria Pulefen. Egli era, fisicamente, un tipico getheniano del Grande Continente, di struttura massiccia, dalle gambe corte e dalle braccia corte, con un solido strato di grasso sottocutaneo che dava, anche nella malattia, una solidità al suo corpo. Aveva piedi e mani piccoli, fianchi abbastanza ampi, e un petto ampio, con le mammelle non molto più sviluppate che in un maschio della mia razza. La sua pelle era scura, di un bruno-rossastro, i capelli neri erano sottili e dall'aspetto morbido. Il viso era largo, con lineamenti minuti ma forti, e gli zigomi pronunciati. Si tratta di un tipo umano non diverso da quello di varii gruppi terrestri isolati, abitanti a grandi altitudini, o nelle zone artiche. Si chiamava Asra; era stato un falegname.

Parlammo insieme.

Asra non era, penso, contrario all'idea di morire; aveva solo paura della morte, e dell'agonia; cercava qualche distrazione dalla sua paura.

Avevamo ben poco in comune, oltre alla nostra comune vicinanza alla morte, e non si trattava di quello che desideravamo discutere tra noi; così, per gran parte del tempo, non riuscimmo a comprenderci molto bene. Per lui, la cosa non aveva importanza. Io, più giovane e incredulo, avrei preferito comprensione, intesa, spiegazione. Ma non ci fu alcuna spiegazione. Ci limitammo a parlare.

Di notte il dormitorio era luminoso, affollato, e rumoroso. Durante il giorno le luci venivano spente e la grande stanza era immersa nella penombra, vuota, silenziosa. Eravamo distesi, vicini, sulla cuccetta, e parlavamo sommessamente. Asra preferiva raccontare lunghe storie complicatissime sui giorni della sua gioventù trascorsi in una fattoria Commensale nella Valle di Kunderer, quella vasta, splendida pianura che avevo attraversato, in auto, venendo dalla frontiera e diretto a Mishnory. Aveva un dialetto accentuato, pesante, ed egli usava molti nomi di popoli, persone, luoghi, costumi, attrezzi, dei quali io non conoscevo il significato, così raramente coglievo qualcosa di più delle frange di quei suoi ricordi. Quando si sentiva meglio, in genere intorno a mezzogiorno, gli chiedevo di narrarmi un mito, una leggenda o una fiaba. Quasi tutti i getheniani ne conoscono a centinaia. La loro letteratura, pur esistendo in forma scritta, è una viva tradizione orale, e in questo senso tutti i getheniani sono dei letterati. Asra conosceva le tradizioni Orgota, gli Aneddoti di Meshe, la storia di Parsid, parti delle grandi epiche e della saga dei Mercanti del Mare, una specie di grande romanzo ciclico. Queste storie, e frammenti di tradizioni locali che ricordava dall'infanzia, me le narrava nel suo dialetto pesante, e poi, quando si stancava, chiedeva, a me una storia. «Cosa raccontano in Karhide?» mi chiedeva, fregandosi le gambe, che lo tormentavano con dolori lancinanti e fitte insopportabili, e rivolgeva a me il suo viso con quel sorriso timido, obliquo, paziente.