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Rolery rimase in silenzio. Era molto stanca, e non capiva. La Città Invernale era stata conquistata, distrutta. Poteva essere vero? Ella aveva lasciato la sua gente. Ora la sua gente era morta, o era priva di casa sulle montagne in una notte invernale. Ella era rimasta sola. Gli stranieri continuavano a parlare interminabilmente, con le loro voci aspre. Per qualche tempo Rolery ebbe l'illusione — e fu consapevole che si trattava di un'illusione — di avere una sottile pellicola di sangue sulle mani e sui polsi. Si sentiva male, ma non aveva più sonno; di quando in quando si accorgeva di rasentare i confini, il primo stadio, dell'Assenza per qualche attimo. I chiari e freddi occhi della vecchia, Pasfal, la strega, la fissavano. Ella non riusciva a muoversi. Non c'era alcun posto dove andare. Tutti erano morti.

Poi ci fu un cambiamento. Era come una minuscola luce, lontano, nel buio. Ella disse a voce alta, ma in tono così basso che soltanto coloro che le stavano più vicino la poterono udire: — Agat sta arrivando.

— Ti ha parlato mentalmente? — chiese brusca Alla Pasfal.

Rolery fissò per un istante un punto a mezz'aria, accanto alla vecchia che la impauriva; non la voleva vedere. — Sta venendo qui — ripeté.

— Probabilmente non sta trasmettendo, Alla — disse l'uomo chiamato Dipilota. — Sono in rapporto continuo, entro certi limiti.

— Sciocchezze, Huru.

— Perché? Agat ci ha riferito di avere trasmesso con forte intensità, in direzione di lei, sulla spiaggia, e di essere riuscito a passare; la ragazza dev'essere una Naturale. E ciò ha instaurato un rapporto. È già successo altre volte.

— Tra coppie umane, certo — disse la vecchia. — Un bambino privo di addestramento non può trasmettere o ricevere un messaggio paraverbale, Huru; un Naturale è la cosa più rara del mondo. E questa è un'eis, non un'umana.

Intanto Rolery si era alzata in piedi, era uscita dal cerchio e si era recata alla porta. L'apri. All'esterno c'erano la vuota oscurità e il freddo. Guardò lungo la strada, e dopo un istante poté distinguere un uomo che veniva nella sua direzione con passo stanco. L'uomo raggiunse la macchia di luce giallognola che proveniva dalla porta aperta, e alzando le mani per stringere le sue, ansimando, disse il suo nome. Sorridendo, rivelò l'assenza di tre incisivi; c'era una benda annerita che gli circondava la testa, sotto il cappuccio di pelliccia; aveva la pelle grigia per la stanchezza e il dolore. Era rimasto sulle montagne fin da quando i Gaal erano entrati nel Territorio di Askatevar, tre giorni e due notti prima. — Dammi un po' d'acqua da bere — disse piano a Rolery, e poi si presentò nella luce, mentre tutti gli altri si radunavano intorno a lui.

Rolery trovò la cucina, e in essa la canna di metallo con un fiore in cima: bastava girare il fiore per far uscire acqua dalla canna. Anche la casa di Agat aveva un simile arnese. Non vide da nessuna parte tazze o recipienti, cosicché raccolse l'acqua nel cavo dell'orlo della sua tunica di cuoio, e in tal modo la portò al marito nell'altra stanza. Egli si chinò gravemente a bere dalla sua tunica. Gli altri fissarono la scena ad occhi spalancati, e Pasfal disse in tono tagliente: — Ci sono delle tazze nel mobiletto. — Ma ormai non era più una strega. La sua malignità cadde al suolo come una freccia priva di forza. Rolery si inginocchiò accanto ad Agat e udì la sua voce.

CAPITOLO NONO

I guerriglieri

L'aria si era di nuovo riscaldata, dopo la prima neve. C'erano il sole, un poco di pioggia, il vento da nordovest, una leggera gelata nel corso della notte: un po' come era stato per l'intera ultima fase lunare d'autunno. L'Inverno non era poi così diverso da ciò che l'aveva preceduto; era quasi difficile credere ai documenti degli Anni precedenti, che parlavano di nevicate alte tre metri, di intere fasi lunari in cui il ghiaccio non si scioglieva. Forse questo sarebbe venuto in seguito. Il problema era adesso rappresentato dai Gaal…

Prestando poca attenzione ai guerriglieri di Agat, sebbene questi avessero inflitto alcune brutte ferite ai fianchi del loro esercito, gli uomini del nord si erano riversati a passo veloce nel Territorio dell'Askatevar, si erano accampati ad est della foresta, ed ora, il terzo giorno, assalivano la Città Invernale. Ma non la distruggevano; ovviamente cercavano di salvare dal fuoco i granai e le mandrie, e forse le donne. Uccidevano soltanto gli uomini. Forse, com'era già stato riferito, avrebbero cercato di trasformarla in una loro guarnigione, lasciandovi una parte dei loro uomini. All'arrivo della Primavera, i Gaal che fossero ritornati dal sud avrebbero potuto marciare da una città all'altra di un loro Impero.

Non era un comportamento da indigeni, pensò Agat, mentre era sdraiato dietro il nascondiglio di un immenso albero caduto, e attendeva che il suo piccolo esercito prendesse posizione per il proprio assalto a Tevar. Era fuori, a lottare e a nascondersi, da due giorni e due notti ormai. Una costola rotta, ricordo della battitura che si era preso nei boschi, sebbene fasciata bene, gli faceva ancora male, e così una scalfittura alla testa, causata da un colpo di fionda dei Gaal il giorno prima; ma con l'immunità alle infezioni, le ferite si rimarginavano molto in fretta, e Agat non si preoccupava di nulla che non fosse almeno un'arteria tagliata. In fin dei conti, solo un colpo alla testa l'aveva messo fuori combattimento. Al momento aveva sete e si sentiva un po' rigido, ma la sua mente era gradevolmente attenta ed egli si godette il breve riposo forzato. Non era un comportamento da indigeni, quel fare progetti per il futuro. I nativi non consideravano né il tempo né lo spazio nella maniera lineare, imperialistica della specie a cui egli, Agat, apparteneva. Per loro, il tempo era una lanterna che illuminava un passo avanti e un passo indietro… il resto era buio indistinguibile. Il tempo era questo giorno, quest'unico giorno dell'immenso Anno. Non avevano neppure un vocabolario per riferirsi al tempo storico: c'erano soltanto l'oggi e «il passato». Guardavano innanzi a sé, tutt'al più, soltanto fino alla prossima stagione. Non guardavano all'indietro lungo il tempo, ma si trovavano in esso, come la lampada nella notte, come il cuore nel corpo. E così facevano anche per lo spazio; per loro lo spazio non era una superficie su cui tirare linee di confine, ma una catena montana, un territorio chiuso, che aveva come centro la persona, il clan e la tribù. Intorno al Territorio c'erano aree che s'illuminavano quando ci si avvicinava ad esse, e che diventavano indistinte quando ci si allontanava; e più lontane erano, tanto più vaghe diventavano. Ma non c'erano linee, non c'erano confini. Questo modo di fare progetti per il futuro, questo voler cercare di conservare nel tempo come nello spazio la proprietà di un luogo che si è conquistato, non era tipica dei nativi; mostrava… che cosa? Un cambiamento autonomo in uno schema culturale indigeno, o un'infezione proveniente dalle antiche colonie settentrionali dell'Uomo e dalle sue vecchie incursioni?

Sarebbe la prima volta, pensò Agat, ironicamente, che hanno imparato un'idea da noi. Come prossima mossa ci attaccheranno il loro raffreddore. Ed esso potrebbe ucciderci; e le nostre idee potrebbero benissimo segnare la loro fine…

C'era in lui una profonda e in gran parte inconscia amarezza nei riguardi dei tevarani, che gli avevano spaccato la testa e le costole e che avevano infranto l'alleanza; e che ora lo costringevano ad osservarli mentre si facevano massacrare nella loro sciocca e minuscola cittadina di fango, sotto i suoi occhi. Egli non aveva potuto difendersi da loro, e adesso era quasi incapace di difenderli. Li detestò perché lo costringevano all'incapacità.

In quel preciso momento — mentre dall'altra parte dei monti Rolery cominciava a fare ritorno a Landin dietro le bestie — ci fu un fruscio delle foglie secche, nella cava dietro di lui. Prima che il suono si fosse spento, egli aveva già puntato in quella direzione la sua pistola.