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Una superficie scura era stesa davanti ai suoi occhi. Da un angolo spuntava la luce.

Un tavolo; il bordo di un tavolo. Luce di lampade, in una stanza scura.

Cominciò a vedere, a percepire. Si trovava su una sedia, in una stanza scura, accanto a un lungo tavolo su cui si trovava la lampada. Era legato alla sedia. Poteva sentire le funi tagliargli i muscoli del petto e delle braccia, appena si muoveva. Movimento: un uomo apparve alla sua destra e un altro alla sua sinistra. Erano seduti come lui, vicino al tavolo. Si piegarono in avanti e si parlarono davanti a lui. Le voci suonavano come se provenissero da grandi vallate lontanissime, ed egli non riuscì a comprendere le parole.

Rabbrividì di freddo. La sensazione di freddo lo riportò a un contatto più diretto con il mondo ed egli cominciò a riprendere il controllo della mente. Ciò che udiva si fece più chiaro e la lingua divenne libera. Disse qualcosa che nelle sue intenzioni doveva essere: — Cosa mi state facendo?

Non ci fu risposta, ma subito l'uomo alla sua sinistra portò la faccia vicinissima a quella di Falk e disse forte: — Perché sei venuto qui?

Falk udì le parole; dopo un attimo le comprese; dopo un attimo ancora rispose. — Per rifugiarmi. La notte.

— Rifugiarti da cosa?

— Foresta. Solo.

Il freddo penetrava in lui sempre di più. Riuscì a spostare un poco le mani, che sentiva pesanti e inabili, e tentò di abbottonarsi la camicia. Sotto alla fune che lo legava alla sedia, proprio sotto allo sterno, c'era un piccolo punto doloroso.

— Tieni giù le mani — disse l'uomo alla sua destra dalle tenebre. — Questo è qualcosa di più di un programmato, Argerd. Nessun blocco ipnotico può resistere al penton in questo modo.

L'uomo alla sua sinistra, dalla faccia magra e gli occhi vivaci, un uomo molto grosso, rispose con una voce debole e sibilante: — Non si può dire… che ne sappiamo dei loro trucchi? Chi è? Tu, Falk, dove si trova il posto da cui sei venuto, la Casa di Zove?

— A est. L'ho lasciata da… — Il numero non voleva tornargli in mente. — Quattordici giorni, mi pare.

Come sapevano il nome della sua casa, e il suo nome proprio? Stava riavendosi del tutto, oramai, e non si stupì oltre. Aveva cacciato selvaggina con Metock usando frecce ipodermiche, capaci di uccidere anche con un semplice graffio. La freccia che l'aveva colpito, o un'iniezione successiva, quando ormai era immobilizzato, doveva contenere una droga che liberava i controlli acquisiti e il primitivo blocco inconscio dei centri telepatici del cervello. Egli era quindi rimasto senza difese contro le domande telepatiche. Essi avevano rovistato il suo cervello. A quell'idea le sue sensazioni di astio e nausea si fecero più forti, peggiorate dall'oltraggio irreparabile subito. Perché questa violazione? Perché, prima ancora di rivolgergli la parola, erano sicuri che avrebbe mentito?

— Voi pensavate che io fossi uno Shing? — domandò.

La faccia dell'uomo alla sua destra, scavata, con barba e capelli lunghi, apparve improvvisamente alla luce della lampada; aveva le labbra tirate all'indietro, e colpì Falk sulla bocca con la mano aperta, strappandogli la testa all'indietro e accecandolo per un attimo per lo shock. Gli rimbombarono le orecchie; e sentì in bocca il sapore del sangue. Ci fu un secondo colpo, poi un terzo. L'uomo respirò fischiando, più volte. — Tu non dire quel nome, non dirlo, non lo dire, non lo dire…

Falk si agitò, senza speranza, tentando di difendersi, di liberarsi. L'uomo alla sua sinistra parlò con voce assai netta, e allora ci fu silenzio per qualche attimo.

— Non avevo intenzione di nuocere venendo qui — disse Falk alla fine, sforzandosi quanto poteva di parlare con voce ferma, nonostante la rabbia, il dolore e la paura.

— Bene — disse quello alla sua sinistra, Argerd — vai avanti e raccontaci la tua piccola storia. Che intenzioni avevi venendo qui?

— Chiedere rifugio per la notte. E chiedere se c'è una pista che va a ovest.

— Perché vai verso ovest?

— Perché lo chiedete? Vi ho già detto tutto in telepatia, dove non si può mentire. Voi conoscete la mia mente.

— Hai una mente strana — disse Argerd con la sua voce debole — e occhi strani. Nessuno viene qui a domandare rifugio per la notte, né per chiedere la strada, né per nessun altro motivo. Nessuno viene qui. Quando ci vengono i servi degli Altri, li uccidiamo. Uccidiamo gli uomini programmati, le bestie parlanti, i Vagabondi, i porci e i parassiti. Noi non rispettiamo la legge che dice che è male togliere la vita… non è vero, Drehnem?

Quello con la barba ghignò, mostrando denti brunastri.

— Noi siamo uomini — disse Argerd — uomini, uomini liberi, uccisori. Tu cosa sei, mezza-mente e occhi di gufo, e perché non dovremmo ucciderti? Sei un uomo?

Nell'arco breve della sua memoria, Falk non si era mai trovato direttamente di fronte alla crudeltà o all'odio. Le poche persone che aveva conosciuto non erano proprio senza paura, ma non ne erano completamente dominate; erano stati generosi e amichevoli. Lì, tra quei due, era senza difesa, come un bambino, e il fatto di saperlo lo lasciava confuso e furente.

Pensò a qualche mezzo per difendersi e fuggire e non ne trovò nessuno. Poteva soltanto dire la verità.

— Io non so cosa sono, né da dove vengo. Sono in viaggio per tentare di scoprirlo.

— Verso dove?

Girò lo sguardo da Argerd verso l'altro, Drehnem. Sapeva che essi conoscevano già la risposta, e che Drehnem lo avrebbe colpito ancora quando l'avesse detta.

— Rispondi! — bisbigliò l'uomo con la barba, alzandosi e piegandosi in avanti.

— A Es Toch — disse Falk, e di nuovo Drehnem lo colpì in viso, e di nuovo ricevette il colpo con l'umiltà silenziosa di un bambino punito da un estraneo.

— Questo non va; non dice niente di diverso da quello che abbiamo ricavato con il penton. Lascia stare.

— E allora? — chiese Drehnem.

— È venuto per trovare rifugio una notte; lo avrà. In piedi!

La cinghia che lo legava alla sedia fu allentata. Con qualche incertezza si resse sulle gambe. Quando vide la porta bassa e la rampa nera di scale in discesa verso cui lo trascinavano, tentò di resistere e di liberarsi, ma i muscoli non gli obbedivano ancora. Drehnem gli torse le braccia fino a farlo accucciare, poi lo spinse oltre la porta. Quando si girò su se stesso per conservare l'equilibrio sulle scale, la porta fu sbattuta e chiusa.

Era nel buio, nero. La porta era come sigillata, non c'era maniglia sul bordo, dall'altro lato non arrivava nessun movimento, nessuna lama di luce, nessun suono. Falk sedette sul primo gradino e lasciò cadere la testa tra le braccia.

Gradualmente la debolezza del corpo e la confusione del cervello sparirono. Alzò la testa, sforzandosi di vedere. Nel buio la sua vista era straordinariamente acuta, e questo, Rayna l'aveva dimostrato molto tempo prima, era merito dei suoi occhi dalla pupilla e dall'iride allargati. Ma solo macchie e frammenti di visioni passate giunsero a tormentargli gli occhi; non poteva veder nulla, perché la luce mancava del tutto. Si alzò in piedi e un gradino alla volta tastò la via lentamente, giù per la stretta scala che non vedeva.

Ventun gradini, due, tre… pavimento. Polvere. Falk si incamminò adagio, con una mano stesa in avanti, in ascolto.

Nell'oscurità si percepiva una specie di pressione fisica, una costrizione che lo ingannava creandogli l'illusione che in fondo sarebbe riuscito a vedere se si sforzava abbastanza, che non doveva e non aveva paura del buio in se stesso. Metodicamente, a passi e tastoni e suoni, esplorò e si fece un quadro di una parte della vasta cantina in cui si trovava, la prima di una serie di stanze che, a giudicare dagli echi, proseguiva senza fine. Si aprì la via del ritorno alle scale, che eran divenute la sua base, perché da lì aveva cominciato l'esplorazione. Tornò a sedersi, sull'ultimo gradino stavolta, e rimase fermo. Aveva fame, anche molta sete. Gli avevano tolto lo zaino, non aveva nulla con sé.