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Lo spazio che egli aveva appena percorso, cioè la distanza tra il muro del palazzo e il palco, era vuoto; davanti a sé, invece, Pilato non vide piú la piazza, inghiottita dalla folla. Questa si sarebbe riversata anche sul palco e in quello spazio vuoto, se non fosse stata trattenuta da una triplice fila di soldati sebastei a sinistra, e di soldati della coorte ausiliare d’Ituria a destra.

Pilato salí dunque sul palco, stringendo macchinalmente nel pugno l’inutile fibbia, e strizzando gli occhi. Questo non perché il sole glieli facesse bruciare, no! Il fatto era che per un motivo inspiegabile egli non voleva vedere il gruppo dei condannati che in quel preciso istante (lo sapeva bene) veniva condotto sul palco dietro di lui.

Non appena il mantello bianco con la fodera purpurea apparve in alto, sullo scoglio di pietra che dominava la marea umana, le orecchie di Pilato, volutamente cieco, furono urtate da un’onda sonora: «Ha-a-a…» Iniziò sommessa, dopo essere nata vicino all’ippodromo, poi divenne forte come un tuono, e dopo essersi mantenuta per alcuni secondi, cominciò a decrescere. «Mi hanno visto», pensò il procuratore. L’onda non si spense del tutto e inaspettatamente ricominciò a crescere, fluttuando sali piú in alto della precedente, e sulla seconda ondata, come la schiuma ribolle su un maroso ribollirono dei fischi, e isolati gemiti femminili, distinguibili attraverso quel frastuono. «Li hanno condotti sul palco, — pensò Pilato; — i gemiti sono delle donne travolte quando la folla si è gettata in avanti».

Attese qualche istante, sapendo che nessuna forza può far tacere una folla finché questa non ha sfogato tutto ciò che le si è accumulato dentro, e non tace da sola.

Quando giunse quel momento, il procuratore alzò di scatto la mano destra, e l’ultimo rumore della folla svaní.

Allora Pilato raccolse nel petto quanto piú aria ardente poté, e gridò; la sua voce rauca sorvolò migliaia di teste:

— In nome di Cesare imperatore!…

Qui alle sue orecchie giunse piú volte un ferreo grido scandito: nelle coorti, alzando le lance e gli emblemi, i soldati urlavano con voci terribili:

— Viva Cesare!!!

Pilato alzò il volto e lo rivolse al sole. Sotto le palpebre gli si accese un fuoco verde, il fuoco gli fece ardere il cervello, e sulla folla volarono gutturali parole aramaiche:

— Quattro criminali, arrestati a Jerushalajim per assassinio, incitamento alla rivolta e offesa alle leggi e alla fede, sono stati condannati a una morte ignominiosa appesi a pali. L’esecuzione avrà luogo subito sul Calvario! I nomi dei criminali sono Disma, Hesta, Bar-Raban e Hanozri. Eccoli davanti a voi!

Pilato fece con la mano un segno verso destra, senza vedere alcun criminale, ma sapendo che essi si trovavano là dove dovevano trovarsi.

La folla rispose con un lungo boato, come di sorpresa o di sollievo. Quando questo si spense, Pilato continuò:

— Ma solo tre di loro saranno giustiziati, poiché, secondo la legge e la consuetudine, in onore della festa di Pasqua a uno dei condannati, scelto dal Piccolo Sinedrio e confermato dalle autorità romane, il generoso Cesare imperatore restituisce la spregevole vita!

Pilato urlava queste parole, e nello stesso tempo ascoltava il rombo della folla mutarsi in un assoluto silenzio. Alle sue orecchie adesso non giungeva un sospiro, un fruscio, e arrivò perfino un momento in cui gli sembrò che tutto fosse scomparso intorno a lui. L’odiata città era morta, ed era rimasto lui solo, arso dai raggi perpendicolari, con il viso fisso al cielo. Pilato mantenne ancora il silenzio, poi ricominciò a scandire:

— Il nome di colui che sarà liberato adesso è…

Fece ancora una pausa, prima di pronunciare il nome, controllando se avesse detto tutto, perché sapeva che la città morta sarebbe risorta dopo l’annuncio del nome del fortunato, e nessuna ulteriore parola sarebbe stata udita.

«È tutto? — sussurrò Pilato tra sé. — È tutto. Il nome!»

E rotolando la erre sulla città in silenzio, gridò:

— Bar-Raban!

A questo punto gli sembrò che il sole, squillando, fosse scoppiato sopra di lui e gli avesse riempito le orecchie di fuoco. Nel fuoco infuriavano ululi, strilli, gemiti, risate e fischi.

Pilato si girò e attraversò il palco diretto verso i gradini senza guardare nulla tranne i quadratini multicolori della stuoia sotto i piedi, per non inciampare. Sapeva che alle sue spalle piovevano sul palco monete di bronzo e datteri e che nella folla ululante, schiacciandosi, la gente si arrampicava sulle spalle per vedere con i propri occhi il miracolo: un uomo che, già tra le grinfie della morte, ne era scampato! Sapeva che i legionari gli stavano togliendo le corde causandogli involontariamente un dolore bruciante alle braccia slogate durante gli interrogatori. Sapeva che l’uomo, pur tra smorfie e gemiti, sorrideva d’un sorriso insensato e folle. Sapeva anche che in quel momento la scorta stava conducendo verso i gradini laterali tre uomini con mani legate per portarli sulla strada diretta a occidente, fuori della città, al Calvario. Solo quando fu oltre il palco, dietro ad esso, Pilato aprí gli occhi, sapendo d’essere in salvo: i condannati, ormai, erano nascosti ai suoi occhi.

Al gemito della folla, che cominciava a spegnersi, si aggiunsero, e si poteva distinguerle, le grida penetranti dei banditori, che ripetevano, gli uni in aramaico, gli altri in greco, tutto ciò che il procuratore aveva urlato dal palco. Giunse inoltre al suo udito lo scalpitare ritmico e frusciante di un gruppo di cavalieri che si avvicinava, poi una tromba che annunciò qualcosa con un suono breve e gaio.

A questi suoni risposero i fischi squillanti dei ragazzini sui tetti delle case lungo la via che portava dal mercato alla piazza dell’ippodromo, e grida di «Attenzione!»

Un soldato che stava solo sul lato libero della piazza agitò allarmato l’emblema che aveva in mano, allora il procuratore, il legato della legione, il segretario e la scorta si fermarono.

Con un trotto sempre piú marcato una coorte alaria di cavalleria irruppe nella piazza, l’attraversò di sghembo evitando la calca, passò lungo il vicolo sotto il muro di pietra coperto di vite, e prese la strada piú breve per il Calvario.

Piccolo come un bambino, bruno come un mulatto, il comandante dell’alaria, un siriano, che era lanciato a un forte trotto, quando giunse all’altezza di Pilato gridò qualcosa con voce sottile e sfoderò la spada. Il suo ombroso morello, coperto di sudore, scartò e s’impennò. Ringuainata la spada, il comandante frustò il cavallo sul collo, lo dominò, e si diresse verso il vicolo, passando al galoppo. A tre a tre volarono dietro di lui i cavalieri in una nuvola di polvere, le punte delle leggere lance di bambú ondeggiarono ritmicamente, davanti al procuratore sfilarono in un lampo volti che sembravano particolarmente abbronzati sotto i bianchi turbanti, coi denti allegramente digrignati che luccicavano.

Sollevando polvere fino al cielo, l’alaria irruppe nel vicolo, e davanti a Pilato passò per ultimo un soldato che, dietro la schiena, portava appesa una tromba che riluceva al sole.

Proteggendosi con un braccio dalla polvere e facendo una smorfia di scontento, Pilato proseguí verso il portone del giardino, e dietro a lui si mossero il legato, il segretario e la scorta.

Erano circa le dieci del mattino.