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Non mi accorsi che io e Hallie Stansfield (la bimba si chiamava così) eravamo circondati da una folla di adulti sempre più folta. E neanche che ci fotografarono decine di volte; lo scatto di Erin Cook venne pubblicato dal foglio settimanale di Heaven’s Bay e da molti altri giornali più importanti, compreso lo Star-Newsdi Wilmington. Conservo ancora una copia incorniciata della foto dentro uno scatolone in soffitta. Nell’immagine, la piccola penzola dalle zampe di uno strano incrocio tra un uomo e un cane con la seconda testa a ciondolargli dalla spalla. Lei ha le braccia tese verso la mamma, immortalata dalla macchina a soffietto di Erin mentre ci cade davanti in ginocchio.

Ho un ricordo confuso dell’episodio, ma chiarissimo della madre che solleva la figlia in un abbraccio e del padre che mi dice: «Ragazzo, credo che tu le abbia salvato la vita.» E mi rammento perfettamente della bambina che mi fissa con i suoi occhioni azzurri e commenta: «Oh, povero Howie, ti è caduta la testa».

Un titolo da prima pagina, come tutti sanno, è uomo morde un cane. Lo Star-News non poteva eguagliarlo ma si impegnò fino in fondo, stampando sotto la fotografia scattata da Erin: CANE SALVA UNA BAMBINA A UN PARCO DIVERTIMENTI.

Tanto per ripicca, mi venne in mente di ritagliare l’articolo e inviarlo a Wendy Keegan. L’avrei persino fatto, se nell’immagine di Erin non fossi somigliato così tanto a un gatto bagnato. Invece lo mandai a mio padre, che mi chiamò per dirmi che andava orgoglioso di me. Da come gli tremava la voce, capii che era sul punto di scoppiare in lacrime.

«Dio ti ha messo nel posto giusto al momento giusto, Dev», dichiarò.

Dio o Rozzie Gold, anche conosciuta come Madame Fortuna. Oppure entrambi.

Il giorno dopo venni convocato nell’ufficio del signor Easterbrook, una stanza con le pareti rivestite da pannelli di legno e tappezzata da fotografie e manifesti di vecchie fiere paesane. Ad attirare la mia attenzione, l’immagine di un imbonitore con un cappello di paglia e un paio di eleganti baffi davanti a un baraccone misura-la-tua-forza. Aveva le maniche della camicia bianca rimboccate ed era appoggiato a una mazza come se fosse stata un bastone da passeggio: un vero damerino. In cima all’asta graduata, accanto al campanello, un cartello recitava: BACIALO, RAGAZZA, È UN VERO UOMO!

«È lei nella foto?»

«Sì, ma ho presto abbandonato quel genere di lavoro. Non mi piaceva, come tutti gli imbrogli. Preferisco giocare pulito. Vuoi una Coca o qualche altra bibita?»

«No, signore, sono a posto.» In effetti, lo stomaco gorgogliava per i frappé del mattino.

«Vengo subito al punto. Ieri pomeriggio ci hai regalato almeno ventimila dollari di pubblicità gratuita, ma non sono in grado di darti neanche un incentivo. Se solo sapessi… ma non importa.» Si piegò in avanti. «Però ti devo un favore. Chiedimelo in qualsiasi momento. Se rientra nelle mie possibilità, te lo concederò. Ti basta?»

«Certo.»

«Bene. E saresti disposto a fare un’ultima apparizione nei panni di Howie con la bambina? I suoi genitori volevano ringraziarti in privato, ma una dimostrazione pubblica sarebbe di grande aiuto per Joyland. La decisione spetta a te, naturalmente.»

«Quando?»

«Sabato. Dopo la sfilata di mezzogiorno. Monteremo un palco all’incrocio tra la Passeggiata e la Strada del Segugio. Inviteremo la stampa.»

«Volentieri.» Non mi dispiaceva affatto l’idea di comparire di nuovo sui giornali. Ultimamente la mia autostima e il mio amor proprio avevano preso una bella batosta e già pregustavo una possibile inversione di rotta.

Easterbrook si alzò, cauto e rigido come sempre, tendendomi la mano. «Ancora grazie. Da parte della bambina ma anche dell’intero parco. Quei contabili che mi stanno addosso peggio delle zecche andranno in brodo di giuggiole.»

Quando uscii dalla struttura, situata insieme con altri uffici in quello che chiamavamo il cortiletto, trovai l’intera squadra ad aspettarmi. Era venuto persino Pop Allen. Erin, elegantissima nella sua divisa verde da Sirena di Hollywood, avanzò verso di me con una corona luccicante fatta di lattine di zuppa Campbell. «Per te, mio eroe», disse, appoggiandosi a terra su un ginocchio.

Nonostante fossi scottato dal sole, tutti notarono le mie gote rosse di emozione. «Per l’amor di Dio, alzati.»

«Gloria a te, soccorritore di bambine indifese», intervenne Tom Kennedy. «E hai anche salvato il nostro posto di lavoro, impedendo che facessero causa al parco e lo costringessero a chiudere i battenti.»

Erin scattò in piedi e mi appoggiò sulla testa quella ridicola corona, stampandomi sulla guancia un enorme bacio con tanto di schiocco. La Squadra Bracchetto esultò al gran completo.

«E va bene», affermò Pop non appena ritornò la calma. «Siamo tutti d’accordo che sei il nostro cavaliere senza macchia e senza paura, Jonesy. Però, non sei neanche il primo ad avere impedito che un bifolco tirasse le cuoia in mezzo al parco. Forza, al lavoro!»

Non me lo feci ripetere due volte. Non mi dispiaceva essere famoso, ma avevo capito il significato recondito della corona di latta: attento a non montarti la testa.

Quel sabato indossai la pelliccia sul palco improvvisato al centro di Joyland. Ero contento di riabbracciare Hallie e lei era sicuramente felice di trovarsi lì. La bambina venne immortalata miliardi di volte mentre dichiarava il suo amore per il suo cagnetto preferito e io la baciai a più riprese per la gioia dei fotografi.

Per un po’ Erin si aggiudicò la prima fila, armata di macchina a soffietto, ma gli inviati dei giornali erano tutti omaccioni nerboruti. Nel giro di breve tempo la relegarono in una posizione meno favorevole, cercando di ottenere quello che lei si era già guadagnata in precedenza: una mia fotografia senza la maschera da Howie. Non mi sarei mai scoperto la faccia, pur con la certezza che Fred, Lane o il signor Easterbrook non se la sarebbero presa. Sarebbe stato contrario alla tradizione del parco: Howie non si faceva maivedere senza costume. Sarebbe risultato un tradimento, un po’ come svelare chi è davvero la fatina dei denti. Ero stato costretto a liberarmi del travestimento quando Hallie Stansfield stava soffocando, un’eccezione necessaria. Non avrei mai infranto di proposito una legge vecchia di anni. Forse, dopo tutto, facevo davvero parte del mondo di Joyland, pur non essendo un figlio del carrozzone.

Più tardi, dopo essermi rivestito, incontrai Hallie e i genitori al centro di accoglienza. Osservando la madre da vicino, mi accorsi che era incinta, anche se probabilmente aveva ancora tre o quattro mesi davanti con le voglie di gelato e sottaceti. Mi abbracciò, versando tutte le lacrime che ancora le restavano. Hallie non sembrava troppo preoccupata. Dondolava i piedi su una delle sedie di plastica, occupata a sfogliare vecchie copie di Screen Timee a leggere i nomi delle varie celebrità con la voce altisonante di un ciambellano che annuncia la visita a corte di un nobile. Tranquillizzai la donna con una serie di lievi pacche sulle spalle. Il padre non scoppiò a piangere, ma si avvicinò con gli occhi lucidi porgendomi un assegno di cinquecento dollari con sopra il mio nome. Quando gli domandai del suo lavoro, mi rispose che aveva avviato l’anno prima una piccola azienda. Ancora ridotta, ma stiamo crescendo, mi informò. Ci pensai sopra, calcolai che i due avevano già un bambino, più un secondo in arrivo, e strappai l’assegno. Gli dissi che non potevo accettare denaro per qualcosa che faceva semplicemente parte dei miei compiti.

Vi prego di ricordare che avevo appena ventun anni.

Per i dipendenti stagionali non esistevano fine settimana; avevamo libero un giorno e mezzo ogni nove, senza scadenze fisse. C’era una tabella dove segnarsi e Tom, Erin e io spesso riuscivamo a prenderci insieme una meritata pausa. Ecco perché quel mercoledì sera, primo agosto, eravamo seduti attorno a un falò sulla spiaggia e con una cena che poteva risultare soddisfacente solo per chi è ancora giovane: birra, hamburger, patatine al gusto barbecue e insalata capricciosa. Per dolce, biscotti ripieni di toffoletta e cioccolato, riscaldati da Erin sulla griglia presa in prestito al banco delle cialde del Pirata Peter.Erano deliziosi.