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Almeno non avrei speso molto. A quei tempi, bastava una confezione da sei di birra per farmi venire gli occhi lucidi. A un certo punto Erin e Tom si unirono a me e guardammo le onde infrangersi sulla battigia: i tre moschettieri di Joyland.

«Qualcosa non va?» domandò lei.

Alzai le spalle, come se si trattasse di una stronzata, di una semplice seccatura. «La mia ragazza mi ha scaricato. Mi ha appena mandato la disdetta.»

«Dis-Devin, nel tuo caso specifico», precisò Tom.

«Cerca di avere un minimo di pietà», lo sgridò Erin. «È triste, sta male e tenta di nasconderlo. Sei così scemo da non accorgertene?»

«No», rispose lui. Mi cinse le spalle con un braccio, stringendomi forte per un istante. «Mi dispiace per il tuo dolore, amico. Sento che spira da te come un vento gelido del Canada o persino dell’Artico. Ti secca se prendo una birra?»

«Serviti pure.»

Restammo lì per un po’. Erin mi fece qualche domanda, senza insistere, e io tirai fuori qualcosa, ma non tutto. Ero triste e stavo male, senza dubbio. Però c’era molto di più, e non volevo che loro due lo capissero. In parte perché i miei genitori mi avevano cresciuto nella convinzione che vomitare addosso agli altri i propri sentimenti fosse il massimo della maleducazione, ma soprattutto perché ero stupito di quanto fosse forte e profonda la mia gelosia. Non dovevano scoprire che ero roso da quel tarlo (lui frequentava Dartmouth,oddio, magnifico, probabilmente era membro della confraternita più in vista e guidava la Mustang che i genitori gli avevano regalato per la maturità). E la gelosia non era nemmeno il peggio. Quella sera, iniziò a tormentarmi l’orrida consapevolezza di essere stato rifiutato completamente e definitivamente per la prima volta nella mia vita. Lei mi aveva mollato ma io le ero ancora legato a doppio filo.

Anche Erin prese una lattina, sollevandola verso di me. «Brindiamo alla prossima che verrà. Non so chi sarà, Dev, ma solo che dovrà considerarsi fortunata di averti incontrato.»

«Ma senti senti!» affermò Tom, alzando la sua birra. E per non smentirsi, aggiunse: «Senti senti! Dove dove? Laggiù laggiù!»

Non penso che nessuno dei due si rese conto, in quel momento o per tutto il resto dell’estate, che mi era crollato il mondo addosso. Che mi sentivo sperduto. Meglio che ne rimanessero all’oscuro. Più che imbarazzante, era quasi disonorevole. Così mi sforzai di sorridere, alzai la mia lattina e bevvi.

Grazie al loro aiuto, non mi scolai da solo la confezione da sei e il mattino dopo mi svegliai con il cuore infranto ma senza i postumi di una sbronza. Fu un bene, perché quando arrivammo a Joyland quel mattino, Pop Allen mi informò che il pomeriggio avrei dovuto indossare la pelliccia lungo il viale principale: tre esibizioni di quindici minuti ciascuna, alle tre, alle quattro e alle cinque.

Come da tradizione, non mancai di lamentarmi (tutti lo facevano) ma in realtà ne ero felice. Mi piaceva che i bambini mi saltassero addosso e, per un paio di settimane, calarmi nelle vesti di Howie ebbe anche un retrogusto amarognolo. Mentre marciavo lungo la strada, seguito da folle di marmocchi ridenti, pensai che non dovevo meravigliarmi se Wendy mi aveva lasciato. Il nuovo ragazzo frequentava l’Università di Dartmouth e giocava a lacrosse. La sua vecchia fiamma stava passando l’estate in un parco divertimenti di terza categoria, travestito da cane.

L’estate a Joyland.

Manovravo le attrazioni e di mattina rimpiumavo i baracconi (ovvero, li rifornivo di premi) per poi occuparmene di persona al pomeriggio. Disincastravo decine di Bolidi Infernali, imparavo a friggere la pastella senza bruciarmi le dita e perfezionavo il mio discorsetto per la Ruota del Sud. Ballavo e cantavo con gli altri pivelli sul palco del teatrino della Borgata. Fred Dean mi mandava spesso a mietere il grano, una vera dimostrazione di fiducia, perché consisteva nel ritirare dai vari chioschi l’incasso di mezzogiorno o delle cinque di pomeriggio. Spesso schizzavo a Heaven’s Bay o Wilmington per un pezzo di ricambio e il mercoledì sera tiravo tardi a lubrificare le Tazze Ballerine e una giostra mozzafiato battezzata Lampo, in compagnia di Tom, George Preston e Ronnie Houston. Quei due aggeggi bevevano olio come i cammelli l’acqua. E, naturalmente, continuavo a indossare la pelliccia.

Nonostante tutto questo, non riuscivo a dormire, manco per il cazzo. Ogni tanto mi sdraiavo a letto, mi infilavo le vecchie cuffie tenute insieme dal nastro adesivo e ascoltavo i Doors. Avevo una particolare predilezione per motivetti allegri come Cars Hiss By My Window, Riders on the Storme naturalmente The End.Se la voce di Jim Morrison e le note spettrali della tastiera di Ray Manzarek non bastavano a calmarmi, sgattaiolavo giù dalla scala esterna e passeggiavo sulla spiaggia. Un paio di volte mi addormentai in riva al mare. Quando mi assopivo per un po’, almeno non venivo tormentato dagli incubi. Probabilmente quell’estate non sognai mai.

Quando mi radevo la mattina, mi accorgevo delle borse sotto gli occhi, e di tanto in tanto mi girava la testa dopo un’esibizione particolarmente faticosa nei panni di Howie (il peggio erano le feste di compleanno nella baraonda infuocata della Cuccia), ma non c’era nulla di strano: il signor Easterbrook mi aveva avvertito. Un riposino nel pulciaio mi rimetteva subito in sesto. Insomma, «tenevo botta», come si dice adesso. Imparai che la faccenda non stava esattamente così il primo venerdì di luglio, due giorni prima del giorno dell’indipendenza.

La mia squadra, la Bracchetto, si presentò come sempre da Pop Allen, che ci affidò le varie mansioni mentre sistemava i fucili ad aria compressa. In genere i compiti del primo mattino consistevano nel caricarsi in spalla gli scatoloni di premi (per la maggior parte con l’etichetta MADE IN TAIWAN) e rimpiumare i baracconi fino allo svegliarino, ossia l’apertura del parco. Però, quel giorno Pop mi disse che Lane Hardy aveva bisogno di me. Ne rimasi sorpreso: di solito faceva capolino dal pulciaio solo quando mancava una ventina di minuti all’inizio. Puntai in quella direzione, ma Pop mi bloccò con un urlo.

«No, no, è al montafessi.» Non avrebbe mai indicato la ruota panoramica con quel termine dispregiativo se Lane si fosse trovato nei paraggi. «Gambe in spalla, giovane. Oggi il lavoro non manca.»

Obbedii, ma non trovai nessuno vicino alla ruota che si stagliava immobile e silenziosa contro il cielo, in attesa dei primi passeggeri.

«Qui», gridò una voce di donna. Mi voltai verso sinistra e vidi Rozzie Gold davanti al suo baraccone da veggente tempestato di stelle. Indossava una delle sue misestratificate da zingara, in perfetta tenuta da Madame Fortuna. In testa aveva un foulard blu elettrico, con le cocche intrecciate che le sfioravano il fondoschiena. Lane le era accanto, nella sua solita uniforme: jeans a sigaretta sbiaditi, una canotta aderente che metteva in risalto i pettorali robusti, la bombetta sulle ventitré da bullo di strada. A vederlo lo avresti preso per scemo, eppure non lo era per niente.

I due erano pronti per lo spettacolo, ma con un’aria torva in volto. Passai velocemente in rassegna gli ultimi giorni, sforzandomi di pensare a una bravata che giustificasse quelle espressioni. Mi venne in mente che forse Lane aveva ricevuto l’ordine di licenziarmi, di sbattermi fuori per sempre. Però, in piena estate? E, nel caso, non sarebbe stato compito di Fred Dean o Brenda Rafferty? E perché Rozzie si trovava lì?

«È morto qualcuno?» domandai.

«Tu no, almeno per il momento», rispose lei. Si stava calando nella parte e aveva uno strano accento, mezzo dei Carpazi e mezzo di Brooklyn.

«Eh?»

«Seguici, Jonesy», mi invitò Lane, incamminandosi giù per il parco, quasi deserto a un’ora e mezzo dallo svegliarino. In giro c’era solo un gruppo sparuto di addetti alle pulizie (i rincitrulli, secondo la Parlata, sicuramente sprovvisti di permesso di soggiorno) che scopavano i passaggi tra i chioschi: un lavoro che avrebbero dovuto sbrigare la sera prima. Sembravo un manigoldo scortato in gattabuia da un paio di sbirri.