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Nella primavera del 1992 a Tom venne diagnosticato un tumore al cervello. Sei mesi dopo era morto. Quando mi chiamò per dirmi che era malato, l’abituale parlantina a raffica rallentata dalla palla da demolizione che gli sbatacchiava nella testa, ne rimasi sgomento e abbattuto, come chiunque altro venendo a sapere che un amico nel fiore degli anni era prossimo alla fine. In quei momenti, ti viene voglia di chiederti come una cosa simile possa essere giusta. Tom si sarebbe meritato una lunga vita piena di belle sorprese, tra cui un paio di nipotini e la vacanza all’isola di Maui da tempo sognata.

Una volta a Joyland mi capitò di sentire in bocca a Pop Allen l’espressione «bruciare la vigna». Nel gergo di Joyland, significava imbrogliare spudoratamente i bifolchi, convinti di partecipare a un gioco onesto, e poi battersela. Ricordai queste esatte parole, dopo tanti anni, quando Tom mi comunicò la brutta notizia.

Però la mente cerca di opporre resistenza finché può. Quando finisce il primo attimo di smarrimento, in genere pensi: D’accordo, è terribile, ma non tutto è perduto; forse c’è ancora una via d’uscita. Anche se il novantacinque per cento di quelli che pescano questa carta finiscono sottoterra, resta un cinque per cento di fortunati. In ogni caso, i medici sono esperti nello sbagliare diagnosi. E, comunque, esiste sempre la speranza di un miracolo.

Pensi così e dopo arriva la seconda mazzata. A darla, la bella ragazza di un tempo, che a Joyland scorrazzava con un vestitino verde svolazzante e un frivolo berretto alla Robin Hood, brandendo un’enorme macchina a soffietto a cui nessun frolloccone sapeva resistere. Come tirarsi indietro di fronte a quella cascata di capelli rosso fuoco e a quel sorriso invitante? Come dirle di no?

Be’, Dio lo fece, bruciando la vigna di Tom e di conseguenza quella di Erin. Quando alzai la cornetta alle cinque e mezzo di uno splendido pomeriggio d’ottobre a Westchester, la ragazza era diventata una donna con la voce spezzata dai singhiozzi, vecchia ed esausta. «Tom è morto alle due, circa tre ore fa. Non ha sofferto. Non riusciva a parlare ma era cosciente. Lui… Dev, lui mi ha stretto la mano quando gli ho detto addio.»

«Avrei voluto essere lì», risposi.

«Lo so», sussurrò, con il tono tremulo che poi si fece saldo. «Sì, sarebbe stato bello.»

Pensi: D’accordo, ho capito e sono pronto al peggio, ma conservi una piccola speranza che alla fine ti fotte. Che alla fine ti uccide dentro.

Le parlai, dicendole quanto le volevo bene e quanto ne avevo voluto a Tom, che sarei venuto al funerale e che in caso di bisogno avrebbe dovuto chiamarmi. Giorno e notte. Poi riagganciai, chinai il capo e scoppiai a piangere come un bambino.

La fine del primo amore non è paragonabile alla morte di un vecchio amico e alla sofferenza di un’altra persona cara, ma lo schema si rivelò lo stesso, esattamente identico. Se la rottura con Wendy fu la fine del mondo, causando prima quei famosi pensieri suicidi (per quanto sciocchi e vaghi) e poi il cambiamento epocale che modificò il corso della mia tranquilla esistenza, dovete capire che all’epoca non avevo nessun termine di confronto. Anche quello è essere giovani.

Con il proseguire di giugno, iniziai a sospettare che il mio rapporto con Wendy fosse ridotto peggio della rosa malata della poesia di William Blake. Mi rifiutai però di credere che fosse davvero condannato, anche quando i segni si fecero sempre più chiari.

Le lettere, per esempio. Durante la prima settimana dalla signora Shoplaw, le scrissi quattro papiri, anche se a Joyland non avevo un solo momento libero e ogni notte mi trascinavo nella mia stanza al primo piano con la testa zeppa di nuove nozioni ed esperienze, sentendomi come uno studente sbattuto a metà semestre in un corso universitario di quelli tosti (tipo studio avanzato del divertimentificio). Per tutta risposta ricevetti una sola cartolina, con il Boston Common sul davanti e sul retro uno stravagante messaggio a più mani. In cima, in una grafia a me sconosciuta, lessi: Wenny scrive. Mentre Rennie è alla guida! Sotto, Wendy (o Wenny, se preferite; io, questo nomignolo, lo odiai subito) aveva allegramente aggiunto: Evviva! Noi commesse, in gita a Cape Cod! Che slego! Musica spaziale! No preoccupa, io al volante Mentre Ren scribacchia sua parte» Spero tutto bene. W.

Musica spaziale? Spero tutto bene? Niente ti amo, mi manchi? A giudicare da scarabocchi, sbavature e macchie d’inchiostro, quelle due avevano scritto la cartolina quando erano in viaggio sull’auto di Renee (Wendy ne era sprovvista), ma sembravano anche ubriache o fatte come cocuzze. La settimana successiva le mandai altre quattro lettere, insieme con una foto scattata da Erin mentre indossavo il costume di Howie. Nessuna risposta.

Prima ti preoccupi, poi inizi a sospettare qualcosa, e alla fine capisci tutto. Magari menti a te stesso, magari pensi che gli innamorati si sbaglino più dei medici, ma in cuor tuo sai la verità.

La chiamai in due occasioni e rispose sempre la solita tipa immusonita. Me la immaginai senza rossetto, con un paio di occhiali a farfalla e un vestito da zitella lungo fino alle caviglie. Non c’è, mi comunicò all’inizio. È uscita con Ren. Non c’è e non tornerà, specificò la seconda volta. Ha traslocato.

«E dove?» chiesi con una certa apprensione. Mi trovavo nel salotto di casa Shoplaw. Di fianco al telefono era appeso un foglio per segnare le chiamate interurbane. Tenevo talmente stretto l’enorme, antiquato ricevitore che mi si erano addormentate la dita. Wendy riusciva a frequentare l’università per il rotto della cuffia, grazie a una serie di borse di studio, prestiti e lavoretti extra, proprio come me. Non poteva permettersi di vivere da sola. Non senza un aiuto.

«Non lo so e non me ne importa niente», rispose la Musona. «Mi ero stufata delle continue bisbocce e delle feste di addio al nubilato alle due del mattino. C’è a chi piace dormire, strano ma vero.»

Il cuore mi batteva così forte che me lo sentivo pulsare fin nelle tempie. «Renee è andata via con lei?»

«No, hanno litigato. Per via di quel ragazzo. È lui che ha aiutato Wenniea traslocare.» Pronunciò il nomignolo con un tale disprezzo da farmi venire la nausea. Non poteva essere la faccenda del tizio a farmi star male: il suo ragazzo ero io.Se un compagno o un collega le avevano dato una mano a fare i bagagli, che importanza aveva? Poteva benissimo avere degli amici. Anch’io avevo un’amica, una sola, ma meglio di niente.

«Renee è lì? Me la passi?»

«No, è uscita con uno.» All’improvviso la sconosciuta parve interessata alla conversazione. Aveva intuito qualcosa. «Ehi, per caso ti chiami Devin?»

Riagganciai quasi senza rendermene conto. Mi dissi che non avevo sentito la Musona trasformarsi di colpo in Musona Eccitata, come se avesse appena riconosciuto una barzelletta di cui facevo parte, forse addirittura nel ruolo del protagonista. A costo di ripetermi, la mente cerca di opporre resistenza finché può.

Tre giorni dopo, ricevetti l’unica missiva da Wendy di quell’estate. L’ultima, in assoluto. Scritta sulla sua carta da lettere, uso mano, decorata da tanti gattini felici di giocare con gomitoli di lana: perfetta per una bambina di quinta elementare, come riflettei in seguito. Erano tre pagine buttate giù di getto, dove lei raccontava che le dispiaceva molto, che aveva cercato di combattere quel forte sentimento di attrazione ma che era stato inutile, che sapeva ci sarei rimasto male e che quindi per un po’ avrei fatto meglio a non chiamarla o cercare di vederla, che sperava avrei superato la botta iniziale e che saremmo rimasti buoni amici, che lui era un bravissimo ragazzo, che frequentava Dartmouth e giocava a lacrosse, che forse me l’avrebbe presentato all’inizio del semestre autunnale, che eccetera eccetera e vaffanculo.

Quella sera, mi afflosciai sulla spiaggia a una cinquantina di metri dal mio appartamento, deciso a ubriacarmi.